Davano le previsioni una brutta giornata ma, in realtà, a parte qualche scroscio importante, non è stata poi così male.

Dovevo vedermi l’isola, era dietro alle mie spalle e la curiosità di salire e osservare ancora quella parte nascosta mi incuriosiva.

Un vecchietto la sera precedente voleva a tutti i costi farci affittare un’auto ma era ormai tardi, così abbiamo preso la palla al balzo e siamo andati alla Rent a Car, di quelle a conduzioni familiare. La sciura ha iniziato a parlare con Mater condivendo la loro Sicilia. Io invece mi sono frantumato le palle con il nipote Vincenzo che mi offriva come scelta una Panda grigio topo, un po’ scassata a vederla dall’esterno.

Ha voluto che ispezionassi tutti i graffi e le ammaccature presenti sull’auto. Ma per quello che me la faceva pagare poteva anche darmi un’auto nuova e non un catorcio di auto risalente al Regno delle due Sicilie.

Insomma, contratto portato a termine. Grandi abbracciamenti e sbaciucchiamenti tra Mater e la titolare, e così finalmente in marcia.

Sono andato pianissimo, perché il periplo era di 30 km. Non volevo bruciarmi il giro dell’isola in un’ora. Superato l’abitato di Canneto, abbiamo proseguito a Nord. ll primo cartello indicante la parola Beach, capite beach e non spiagia, ho piantato l’auto e sono sceso a rotta di collo quei 200 e passa gradini. Un vecchietto vista la mia baldanzosità, mi ha preso per il culo, dicendomi: Vedrai la salita, non avrai più voglia di correre. Mi sono immaginato la sua interventricolare chiudersi in quel preciso istante.

Il panorama era bello, ma tutto un po’ sciatto, un po’ lasciato così, un po’ con quel senso di abbandono. Ho percorso la mezzaluna della spiaggetta e sono emerso sulla strada con la lingua di fuori e il dito medio alzato in direzione del vecchietto.

Poco più avanti la sciatteria avanzava un po’ di più con le fabbriche degli impianti di estrazione della pomice. Ma pulite un po’, che vi costa? E nulla mi sono visto l’Havana Beach, che terronzelli, non sanno come sia fatta una beach dei caraibi. Stesso sciattitudine. Un peccato perché la spiaggia nera dava quel senso di magico e sovrannaturale.

Mi sono fermato così nell’abitato di Acquacalda, un paesuncolo dismesso, cadente e fatiscente. Sembrava che la prima marea portasse via il paesello.

Finalmente ho potuto ammirare Salina che si ergeva prepotente davanti a me ed era così vicina che quasi la si poteva toccare per mano.

Saliamo su ancora in alto, ormai mezzo periplo era stato fatto, e siamo arrivati al Santuario della Madonna delle Catene. Un posto stupenderrimo, panoramicissimo. Peccato per la pioggia e le nuvolaglie nere che impedivano di vedere oltre. Un vero peccatto sarei rimasto tutto il giorno.

E così piano piano ho percorso l’altopiano, punteggiato da casette, per poi ridiscendere giu a Pianoconte. La pioggia è scemata per un po’ il tempo è migliorato così ho potuto vedere l’intera isola di Vulcano dal punto belvedere di Quattropiani. E così sono sceso a rotta di collo fino a Lipari. Volevo vedermi la punta meridionale. Peccato che sono dovuto passare davanti alla scuola proprio nel momento di uscita dei pargoli. Un delirio con madri in seconda, terza, quarta fila. Non c’è rispetto della quiete nemmeno nelle isole.

Sono arrivato così all’osservatorio panoramico dove il cielo era perfettamente sereno e Vulcano si vedeva nella sua interezza senza nebbie strane.

Dopo tutta questa fatica mi sono buttato in una pasticceria, vivendo il mio dliemma dolciario quotidiano.

E così alle 5 abbiamo ridato l’auto al cugino Vincenzo che ha, di nuovo, ispezionato l’auto neanche fosse un agente CSI di Las Vegas.