Quando tutti hanno il padre più bellissimo del mondo

Ti ho visto all’improvviso su un bus dell’AVT. Non avrei mai immaginato di incontrarti lì dopo averti lasciato pochi giorni prima in un carcere sporco e nauseabondo vicino all’aeroporto. Quella, era la seconda volta che ti vedevo in vita mia, caro padre. Non ho fatto in tempo a reggermi alle mie sicurezze che mi sono subito sentito travolto da una forza distruttrice. Non sono riuscito ad evitarti e a scendere dal bus e non mi sono neanche voltato da un’altra parte per assicurarmi se per caso non stessi sognando. Di fronte ad una tragedia immane, non ho avuto la forza di allungare la mano per ripararmi e per evitare che la mia vita venisse sbriciolata dalla forza di un grande vuoto. Ormai, dovevo aspettare che il finimondo giungesse al suo completamento. Mentre ogni cosa attorno a me franava, ho provato una sensazione dura, lancinante. Non ero preparato a vederti quella mattina sul bus numero “sette” dell’AVT. E’ stata un pugno allo stomaco la tua presenza. Intuivo soltanto che, indipendentemente da ciò che sarebbe successo da quel momento in poi, mi sarei dovuto mettere di impegno a ricostruire quel mondo che si stava sgretolando. Non c’era più nulla da fare, neanche se avessi chiuso gli occhi e fossi sceso alla prossima fermata. La tua presenza mi incastrava e distruggeva il mio intimo. Quell’incontro avrebbe segnato la mia vita per sempre, sarebbe stato uno spartiacque tra due eventi, la pausa dopo il terremoto caratterizzata da un “prima” in cui c’erano tutte le certezze e sicurezze e da un “poi” in cui mi sarei trovato spoglio e denudato nel profondo di me stesso. In mezzo c’eri tu, immagine confusa, pregnante di puzza, meschina, sorda, marcia. Tu eri il terremoto.

Mi sono sentito tutt’ad un tratto indifeso, da solo, nel pieno di una grande solitudine. Tu hai provocato il crollo del castello di fatiche e speranze che ero riuscito a tenere in piedi con grossi sforzi. Mi sono ritrovato così con un cumulo di macerie che avrei dovuto spazzare via se avessi voluto ricostruire di nuovo.

Nella pausa infinitesimale dell’incontro, tutto si è fermato tranne il mondo esterno. Perché? Perché non si è arrestato il bus, perché la gente non è diventata un’accozzaglia di persone immobili senza respiro, perché il motore assordante mi ha procurato una sensazione così lacerante, insopportabile, al limite della pazzia? Perché nessuno si è accorto della tragedia che si stava consumando? Perché ho dovuto partecipare da solo al dramma degli eventi? Possibile che fossi destinato ad essere l’unico testimone di quell’incontro? Come avrei voluto che la pausa silenziosa, intima, venisse condivisa da coloro che erano accanto a me, come avrei voluto sentirmi meno solo per non dover sopportare la pesantezza della tua presenza! Come avrei voluto aggrapparmi sui volti tremendamente inespressivi delle persone che condividevano la corsa del bus…, ma chi si sarebbe fatto carico della testimonianza di una tragedia?

Il terremoto è passato in un frangente, distruggendo senza pietà, sensazioni, ormoni, immagini, dolori, orgasmi, amplessi. Tutto ciò che mi apparteneva, è rovinato a terra, oscillando dapprima paurosamente su esili certezze. Mi stavi davanti, ignaro della tempesta emotiva che avevi scatenato nell’intimità di un ragazzo, tuo figlio. Non sapevi neanche di aver provocato il terremoto; eri inconsapevole di essere stato la causa di uno scombussolamento. Tu eri la fine dell’ordine e l’inizio di un ennesimo tentativo di ristabilire la normalità. Eri lì, fermo, appoggiato alla sbarra con uno sguardo pietosamente perso; eri lì, minuto, incredibilmente piccolo, con un dolcevita bianco e lurido sul quale apparivano certe macchie orrende; eri lì che abbracciavi l’asta di metallo senza vigore e ti lasciavi sollazzare come un peso morto ad ogni strattone del bus; eri lì, caro padre, con gli occhi fissi per terra che ti concedevano di vedere soltanto l’unica dimensione nella quale vivevi. Quanto eri vecchio, quanto malato! La bocca rugosa e rattrappita lasciava immaginare che fossi senza denti; sulle gote magre, coperte da ispida peluria, la pelle era così sottile che sembrava volersi lacerare da un momento all’altro, quei grossi peli che nascondevano in parte il volto, erano di un disgustoso grigio-giallognolo; gli occhi che si scorgevano a fatica, incavati com’erano, erano totalmente inespressivi. Infine, eri calvo: soltanto una corona di capelli circondava la nuca. Sotto il volto, il maglione bianco, o meglio di colore giallo dovuto alla sporcizia, incrostata da chissà quanto tempo, ti arrivava fino al mento.

Ho avuto paura, una paura irrazionale; un istinto segreto mi svelava che ti avrei perso per sempre una volta sceso dal bus. Il timore era fondato ma…, era motivato? Non ti avevo visto per diciassette anni, mi sarei dovuto preoccupare se magari ne fossero passati altrettanti senza di te? Era la seconda volta che ti vedevo, se anche fosse stata l’ultima, che cosa avrei potuto perdere ancora? Di certo non mi saresti stato mai più d’aiuto in quelle condizioni. Non avrei mai più dovuto credere in te. Sarei dovuto rimanere tranquillo, ignorandoti, ma non è stato così.

Il problema era un altro. Avevi causato uno scompiglio nei miei sentimenti. Il danno ormai era irreparabile. Avevo un buon motivo per preoccuparmi. Se solo non fossi salito sul “sette” dell’AVT, non mi sarei lasciato soggiogare dalla forza devastatrice di un fantasma! Il tuo corpo di vecchio barbone mi faceva schifo, l’unto fra i pantaloni pure. Eri tu mio padre? Padre?! Stentavo a crederci, non riconoscevo niente di mio in quella visione. Tu eri un’immagine odiosa, ma allo stesso tempo tanto cara. Dopotutto eri mio padre. Mi ostinavo a ripetere dentro di me che un padre e un figlio si erano appena incontrati ma non sapevo bene quale significato potesse avere una simile frase. Dovevo giustificarmi qualcosa? Forse la tua presenza incredibilmente indecente? Ho faticato a trattenere lo stomaco che rabbiosamente voleva contrarsi per liberarsi dell’anima, magari con una bella chiazza di vomito che avrebbe sporcato ulteriormente per terra e accresciuto la desolazione che ci circondava. Nonostante fossi allo stremo delle forze, ho lottato almeno per stare in piedi, per mantenere un minimo di dignità. Ho temuto di non farcela a reggerti nel mio sguardo, ma ci sono riuscito con coraggio. Tanto devastante è stato per me il terremoto, così impressionante è stata la tua immobilità. Infatti tu sei rimasto lì, impassibile, freddo, lasciandoti dondolare come un pezzo di straccio. Il fragore del pensiero che mi appartenessi, non riuscivo a farlo tacere. Mi rimbombava nelle orecchie, mi scuoteva fin dentro l’anima. Benché fosse la seconda volta, non sono riuscito a disconoscerti.

Continuava ad assillarmi l’idea di avermi concepito. Quando ero entrato dentro la tua testa, nei tuoi pensieri? Forse quando “lo” avevi infilato dentro ad una donna, mia madre, tra i dolci effluvi di una primavera nascente? Di certo non prima. Non avevi mai pensato di formare una famiglia; per rispondere alle esigenze fisiologiche di ciascun uomo, ti era bastato soddisfare il desiderio sessuale senza metterci una briciola d’amore. Avevi sempre cercato di raggiungere il piacere grezzo, primitivo, non finalizzato. In quell’orgasmo avevi messo tutta la potenzialità di un uomo fallito. Raggiunto il benessere, ti eri lasciato andare in respiri affannosi, assordare dai battiti accelerati del cuore e avvincere dalla pigrizia di un dolce dormiveglia. Avevi espresso il meglio di te stesso. Non avevi spessore. La tua vera essenza si rivelava in quei frangenti nei quali riposavi, assaporando il gioco degli ormoni che creavano un ambiente paradisiaco. Non eri un vero uomo, ti lasciavi soggiogare nel profondo dell’anima da quelle esigenze grette che il sesso reclamava. Non volevi assumerti le responsabilità di un uomo, non te ne fregava dell’amore che avresti potuto regalare ad una delle potenziali vite raccolte in qualche goccia di sperma. Non mi avresti mai dato amore con un orgasmo. Quel gesto era stato il mio primo, piccolo, intimo terremoto, la pausa dove “prima” non esistevo e “poi”, per non so quale logica perversa, avevo iniziato a prendere respiro tra due cellule meschinamente ostili. Ero nato dall’odio, ne ero sicuro, odio a livello intimistico. Le tue cellule erano infette, le altre pure. Infette da un morbo che non lasciava passare l’amore. Se c’era stata un’incompatibilità di umori, nessuno se ne era interessato. Non si era evitata la tragedia di concepire un figlio senza averlo individuato prima nel cuore e nella mente. Non c’era stata la volontà da parte di ciascuno di fermare un gesto che avrebbe avuto conseguenze spropositate. Nemmeno a livello microscopico si era avuta una tempesta di anticorpi per aggredire due cellule che si stavano fondendo assieme. Probabilmente il tutto era stato disegnato da un destino non contrastato da alcuna volontà umana. Tu, bastardo, porco, lurido, non ti eri minimamente degnato di rinunciare al piacere. Avevi già mietuto altre vittime. Non ti eri sentito almeno un po’ responsabile? Non ti eri lasciato vincere da qualche rimorso? Il piacere ti dava ancora il diritto di trasferire su una fotocopia i tuoi lineamenti, il carattere ribelle, le perenni indecisioni, le incapacità nel realizzare un futuro? Perché non avevi rinunciato, perché non ti eri riscattato, liberandoti dalla schiavitù del sesso? Avresti avuto un’ottima occasione per dare prova di grande coraggio se avessi espresso non solo la sessualità ma anche la virilità di un uomo! Non valevi niente, in fondo, eri uno smidollato. Eri stato un bastardo a pensare che tutto si sarebbe risolto con uno stramaledetto orgasmo. Ti eri comportato come un animale, anzi, peggio di quanto non si sarebbe comportato un cane o un gatto in calore. Con quale diritto potevi comportarti così? Chi ti aveva concesso l’uso della fotocopiatrice? Era bastato schiacciare un tasto, “print”, ed ecco che il gioco era fatto, molto meno piacevole di quanto non avresti voluto. Dopo l’orgasmo te ne eri andato dalla mia vita, abbandonandoti nelle eterne peregrinazioni, annegando in un mare di alcool e fumo. Mi avevi lasciato in eredità tutto il catrame dei tuoi polmoni e avevi infuso whisky anziché sangue. Quale futuro avrei mai potuto avere, già intossicato nel limbo nel quale mi avevi messo?

Te ne eri andato, io ti ho rivisto dopo diciassette anni. Dove eri stato, dio mio? Me lo avresti dovuto dire su quello strafottutto bus dell’AVT!, ma avresti avuto la forza ed il coraggio di parlare? Non c’era bisogno che tu aprissi la bocca sdentata, con lo sguardo riuscivo a capire più di quanto non avresti potuto dirmi in tutti questi lunghissimi anni. Che cosa avrei dovuto chiederti quando la verità era lì davanti, lampante, disegnata sul tuo volto? Che cosa avrei dovuto farti dire quando tu stesso non eri capace di tirar fuori mezza parola, né di trovare una giustificazione convincente alla tua miserrima condizione? Se, caso mai, mi avessi dato una spiegazione o una ragione, non ti avrei mai creduto per nulla cosa al mondo. Non ti avrei mai perdonato, pietoso o non pietoso, comunque ridotto ad uno straccio, di avermi lasciato in balia di me stesso! Non mi importava più oramai di allacciare un legame affettivo con te. Tu esistevi solo come percezione intima, come ideale di un mondo personale. Avrei dovuto lasciarmi impressionare dalla tua presenza? Se il terremoto è avvenuto, non di certo è stato causato da un vecchiettino salito sul bus! Tu, in quanto persona fisica, tutta pelle e ossa, non c’entravi niente. Avrei dovuto piangere per un vecchio barbone alcolizzato? Per questa tua infima condizione, avrei dovuto ringraziarti o condannarti? No. Non avrei mai più mosso un dito per venirti a cercare. Tu non conoscevi le fatiche della mia vita, io non sapevo niente di te. Avevo vissuto per quasi vent’anni senza un padre! Avrei potuto ancora sperare ancora in te? Se quella mattina avessi fatto di tutto per riconciliarti con me, non avrei mai accettato le tue proposte e ti avrei considerato un estraneo, proprio come le donne, i bambini e i vecchi della corriera. Davanti ai miei occhi eri un perfetto sconosciuto, un barbone rincoglionito. Forse non avevi neanche il biglietto della corsa…

Ho provato a ricomporre qualcosa tra le macerie. Quanti ricordi, quanti oggetti infranti! La causa di tutto quel disastro eri tu, padre. Da sempre la tua assenza era stata motivo di precarietà nel mio vissuto. Anziché essere il cemento di una famiglia, ne eri la forza distruttrice; anziché essere una roccia liscia, eri l’asperità. Tu, viaggiatore sulla predella, incrostato di sporcizia, pronto a scendere quando l’istinto ti comandava, tu, inconsapevole regista di destini intrecciati e separati, tu, stratega di guerra, principio di indifferenze, pulsioni e bestialità, eri mio padre! Avevi voluto possedere il mondo tra le mani ma ti sei ritrovato a stringere una sbarra di metallo per sorreggerti. Non nascondevi niente, la verità era piccola come te, interamente adagiata sulle spalle incurvate, la tua vita era misera quanto l’unto sul maglione, l’eterna sete di riposo traspariva sulla pelle disidratata, il cancro rodeva i polmoni. Che cosa mi avresti potuto dare? Mi avresti detto, forse: ”Ciao, sono tuo padre…”?

Ti eri perso nelle vastità inutili di glorie mai raggiunte, ti eri inabissato nella fanghiglia della monotonia, caricando fumo e alcool, eri stato ingannato dai tuoi stessi sogni, l’inettitudine ti aveva divorato. Avevi voluto un cielo e un mare tutto tuo per vivere indisturbato, indifferente tra la gente e il mondo. Tu, purtroppo, ti eri lasciato schiacciare dalla pesantezza del corpo e ti eri eclissato. Ti eri lasciato travolgere da sogni grandi, da pensieri eccelsi quanto effimeri, avevi tentato di raggiungere un eden in cui ti saresti sentito realizzato. A lungo andare avevi raggiunto la disperazione. In altre parole eri diventato un fallito senza però averlo dichiarato: bastava leggertelo sul volto.

I miei sogni purtroppo erano identici ai tuoi, le mie schiavitù uguali alle tue. Di fronte a te, mi sentivo in un gioco di specchi dove venivano riflesse le nostre immagini. C’era qualcosa di identico che veniva a sovrapporsi in modo perfetto. Lo potevo percepire sulla pelle. Eravamo schiavi di un qualcosa di incommensurabile, di un qualcosa, mille, diecimila volte più grande delle nostre misere esistenze. Un mistero assoluto di bellezza, di perfezione ci aveva avvolto. Avevamo da sempre rincorso questo ideale, questo impalpabile desiderio senza tuttavia raggiungerlo e farcelo proprio. Tu ti eri lasciato travolgere dagli eventi, dalla meschina piccolezza del corpo, mentre io ero riuscito a scorgere le insidie che si celavano nel rincorrere una chimera. Tu avevi perso tutti i punti di riferimento, diventando schiavo e ossessionato da un sogno irrealizzato, mentre io ero riuscito a capire che ogni qualvolta si usciva dai binari, bisognava riportare il tutto nel sistema di coordinate di ogni giorno. Ti eri scordato il raziocinio, ti eri dimenticato di possedere delle braccia, delle mani, insomma un corpo, sapevi però di avere un “sesso” che ti appagava nei voli fantastici. Non eri riuscito a formare una spessa umanità, non avevi mai costruito una personalità solida sulla base delle comuni esperienze di ciascun uomo. Non ti eri mai posto il problema di un passato o di un futuro. Il presente era così futile, evanescente, volatile come la tua essenza. Eri un angelo che non riusciva a spiccare il volo per mondi eterni. La pesantezza ti aveva condannato ad una misera peregrinazione nelle anguste periferie del tuo essere. Il brutto era che non te ne eri accorto, affondando giorno dopo giorno in una melassa che ti impediva di vedere, di muoverti, di opporre resistenza agli istinti. Avrei potuto darti le macerie del terremoto, ma per che cosa? Ti sarebbero servite? Chissà da quanto avevi rinunciato a costruire! La tua intera vita era stata un’interminabile pausa. Non c’era mai stato un “prima” e un “poi” che avevano scandito i frangenti della vita. C’era stato soltanto uno schifoso pattume. Non possedevi ricordi di fatiche adolescenziali, di impegni per vivere dignitosamente. La vita per te era stata tutto un miscuglio di sensazioni che non erano mai assurte a coscienza nella rete deforme della tua materia grigia. Che verità mi sarei mai potuto aspettare da te? Che padre avrei dovuto incontrare se non quello della corriera?

Ti sei presentato così all’improvviso senza preavviso. Non avevo niente addosso per proteggermi, non ero neanche un po’ coperto di sicurezze. Tu rimanevi lì, come uno specchio lasciato per troppo tempo all’incuria, mai una volta spolverato o lavato. Su di te si era adagiata una polvere atavica, faticosa da togliere. La superficie era incrostata, piena di righe e rifletteva un’immagine non più nitida. Non riuscivo a vederci molto.

La prima volta che ti avevo visto era stato in carcere, una misera casa di reclusione poco distante dall’aeroporto. Ero pronto a tutto in quel giorno. Mi ero protetto, bardandomi fino all’inverosimile con un carico di difese per far fronte ad un incontro atteso ormai da ben diciassette anni. Per quell’incontro, avevo cercato di avere il più possibile notizie di te. Non avevo ricavato molto. Sapevo che avevi girato in lungo e in largo l’Italia, che ti avevano tolto un polmone lasciando in cambio un orribile sbrego sulla schiena; che dovevi scontare qualche condanna definitiva alla giustizia, che ti avevano chiuso in carcere a scopo più preventivo che altro, non avendo trovato di meglio che quella casa di reclusione. Ero riuscito a risalire a te dopo ostinate ricerche tra gli archivi di ospedali, sfiorando a volte l’illegalità; benché i tuoi spostamenti fossero illogici e nessuno sapesse dirmi qualcosa di preciso, avevo scoperto la tua permanenza in carcere per mezzo di un bigliettino lasciato all’interno di una scrivania di una persona importante. Non mi ero mai pentito di aver frugato in quel cassetto. Sul foglio c’era scritto il tuo nome e cognome e poco sotto, il nome del carcere vicino all’aeroporto. Avevo faticato per lunghi anni e alla fine, la verità si era presentata così in modo semplice e paradossale quando ormai mi ero stufato di cercarti. Ero davvero stupito di aver trovato un indirizzo con tanto di via, civico, paese e numero telefonico. Il cuore era iniziato a battere violentemente, i pensieri si erano fatti confusi. Dovevo andare fino in fondo a quella verità, non mi potevo permettere di sedermi ora che avevo in mano un riferimento preciso. Avevo passato una notte insonne, quante paure erano affiorate nel buio di una notte all’inizio di un novembre uggioso! Avevo ripercorso interamente la mia vita, una manciata di anni, con lucidità febbrile. Vi avevo trovato molta sofferenza, ma anche saggezza. Avevo vissuto quell’esistenza considerandomi l’eletto di non so quale divinità. Non avevo nulla da rimproverarmi e mi domandavo se quella stessa vita sarebbe stata la stessa se ci fossi stato tu. Non sapevo darmi una risposta, ma amavo quella vita che nel bene e nel male, mi aveva portato ad assaporare bellezze incommensurabili e spiritualità eccelse. Ero sempre stato un emotivo consapevole di esserlo perché a me era capitata una sorte sicuramente diversa dalle altre persone. Mi spaventava piuttosto l’incontro. Se avessi perso le mie sicurezze, se mi fossi smarrito in un buio dal quale non sarei mai più riuscito ad uscire? Ero pronto a tutto, oramai. Avevo aspettato il nostro incontro non tanto per vederti o conoscerti, ma per giustificarmi un pezzo di passato che non avevo mai conosciuto. Ti avevo sempre rincorso perlopiù per uno scopo meramente egoistico. Volevo sapere a tutti i costi dove poggiavano le mie radici perché mi aveva sempre spaventato un’esistenza senza punti di riferimento. Tu, padre, avresti chiuso il primo anello della mia vita. In carcere, i carabinieri, dopo non poche resistenze, perché non portavo il tuo nome, mi avevano concesso di farmi entrare nella sala adibita agli incontri e mi erano stati a fianco quasi quasi avessero dovuto sorreggermi nell’eventualità di un cedimento provocato dalla tua vista. Avevo visto solo un vecchio bacucco con una sigaretta in bocca. Certamente avevo avuto poco tempo e non mi era stata data la possibilità di parlarti, ma ero sicuro di non aver visto niente che minimamente potesse assomigliare alla figura paterna. Non ti avevo riconosciuto come padre e, ancor più stupefacente, non avevo avuto alcun sussulto emotivo. Ero uscito dal carcere ancor più spoglio di quanto non fossi entrato, ma non mi ero fatto del male. Tutta la fatica nel cercarti, tutte le speranze ed incertezze provate prima di arrivare a te, erano evaporate come l’acqua contro una piastra rovente. Non ero riuscito ad ottenere niente dopo parecchi anni di ricerca.

Vederti pochi giorni dopo, invece, sì, è stato terribile per me, perché in te ho visto la mia immagine, seppure in un frangente così fuggevole che ha portato il terremoto nella mia anima. Ho provato ad immaginare se per caso non puzzassi come te. Mi sono guardato le mani, me le sono portate tra la bocca e il naso; le ho annusate e le ho leccate un po’. Ho percepito un esile profumo di bagnoschiuma. Quella mattina, per fortuna, mi ero fatto il bagno. Ho provato a guardare il maglione. Era nero, non si vedeva se era sporco, in compenso era morbidissimo e profumato. Ho passato la mano sul petto, sul ventre, fino al pube per gustarne la dolcezza. Per una frazione di secondo, mi sono sentito eccitato. Ho infilato le dita tra i bottoni dei jeans. Tutto sotto controllo, ma mi sentivo a pezzi ed ero ridotto davvero ad uno straccio. Subito dopo mi sono passato l’altra mano sul volto. Non c’era segno di barba, era tutto liscio. Anche i riccioli che mi cadevano sugli occhi erano soffici. Era possibile che io fossi la tua immagine riflessa? Io profumavo, tu puzzavi; io ero giovane, tu molto più vecchio della tua età; io ero bello, tu immagine torva e inquietante; io possedevo ancora molta dignità, tu avevi l’aspetto di un verme strisciante. Era forse colpa del vetro smerigliato se non riconoscevo l’immagine di mio padre? Oppure dello specchio che ormai era privo di qualsiasi potere riflettente? Mio padre era un’altra persona ed esisteva soltanto dentro di me. Io ti avevo così tanto idolatrato, ti avevo pensato bello, giovanissimo, grande e forte, un figo da pubblicità, di quelli che si radono la mattina o si mettono l’acqua di colonia. Avevo trascorso interminabili momenti con te, costruendo giorno dopo giorno la più grande e bella illusione della mia vita. Ti avevo costruito un universo mio, personalissimo, pieno di fronzoli. Te l’avevo regalato senza paura nella mia mente vivace. Eri tu un’idea che cambiava a seconda delle esigenze. Tu eri padre e figlio allo stesso tempo. Quando avevo bisogno di protezione, mi accoccolavo tra immaginarie braccia e delicati profumi. Invece quando mi sentivo sicuro di me, allora diventavi un figlio piccolo, poco meno di un adolescente e ti conducevo per mano su giostre bellissime, scintillanti, piene di luci, con la ruota panoramica. Tu eri qualsiasi cosa in questa mania delirante. Nella fantasia, tu eri così tenero e mai ti avrei voluto diverso da questa idea. Eri gentile verso mamma, mi portavi al cinema comprandomi le patatine, oppure mi portavi allo stadio. Tu eri questo: un padre modello, un eroe di tutti i giorni che veniva a prendermi a scuola quando i tuoi impegni te lo permettevano. Ti avevo portato sempre con me quando mi sentivo scoraggiato, ti avevo sempre teso la mano quando brancolavo nel buio. Ti avevo chiesto di seguirmi quando entravo in tunnel di brutture, ti avevo sempre reclamato quando ero avido di affetto. Non mi ero mai lasciato morire di inedia. Avevo passato mille notti vivendo un sogno. La mente era sempre in continua produzione di immagini benché non avessi mai avuto la certezza che tu esistessi. Il mio inconscio si gonfiava e si sgonfiava di te, come il mio respiro. Certe volte eri così vivido, bellissimo, un perfetto simulacro, mentre certe altre, mi apparivi lontano, confuso, opaco, dietro a dei lastroni di ghiaccio. Benché non riuscissi ad avere un’immagine coerente e valida per ogni mia esigenza, avevo però capito perché ti immaginassi bello. Dentro di me, avevo sempre avuto il desiderio di ricercare la bellezza nelle cose comuni della vita. Mi commuovevo fin dentro l’anima quando la percepivo, tutto il mio essere vibrava in sintonia coll’universo. Mi sentivo realizzato. Sapevo che mi avevi dato un animo da esteta, che mi avevi regalato un calice grande da riempire di gioia. Avevo sempre apprezzato i primi profumi della primavera, i colori caldi di un tramonto, il sentimento benevolo dell’amore.

Me l’avevi donata tu questa insaziabile sete. Quando mi avevi concepito, non mi avevi del tutto intossicato, ma mi avevi anche trasmesso la capacità di sorprendere l’incommensurabile.

Era stata sempre in te l’idea di desiderare un donna bellissima. Avrebbe avuto delle cellule che si sarebbero legate con il tuo seme non nell’odio, ma in una dimensione eccelsa e gonfia d’amore.

Lei ti avrebbe salvato dalla distruzione, ti avrebbe sollevato, accogliendo dentro di sé tutta la meraviglia dell’infinitamente grande.

Assieme avreste raggiunto la perfezione senza infognarvi nelle insidie del vivere.

Ma dove trovarla, la donna bellissima, giovane o vecchia, intensamente profumata con linee delicate ma decise, con un seno perfetto, coperta interamente ed unicamente da un vestito di seta?

Dove trovarla, in quale universo, su quale stella? Nessuna mai sarebbe stata tanto all’altezza per soddisfare quell’esigenza grandiosa.

Eri così testardo dell’estetica pura, delle gambe divinamente lunghe, sinuose, sensuali.

Quelle donne semplici che avevano dentro di sé uno splendore inimmaginabile, le trovavi nei sogni segreti, durante gli orgasmi a tradimento nelle notti fonde.

Se avessi trovato questo eden, avresti colmato la tua fame con pura ambrosia e ti saresti poco alla volta, trasformato in un dio per congiungerti con la più bella, la più splendida e segretamente docile delle donne del mondo.

Praticamente avevi voluto un’unica donna che potesse racchiudere in sé tutte le qualità femminee.

Non eri riuscito a scorgerne una nella lunga peregrinazione che ti aveva portato lungo tutta l’Italia. Ti eri invece aggrappato alla prima che era capitata per caso davanti ai tuoi occhi; grassa, tanto meglio avevi pensato perché più facile da aggredire con le proprie incapacità. Avevi avuto una grande forza e tenacia nel nascondere la vergogna di non aver trovato la donna dei tuoi sogni. Nessuno mai ti aveva dato del donnaiolo o del montanaro che si fotte brutalmente le donne. Il vessillo dell’estetica, l’avevi innalzato ad ideale e davanti a tutti l’avevi ostentato. Volevi passare per un puro di cuore, ma dentro di te il cancro dell’inettitudine ti stava mettendo con le spalle al muro. Ti eri lanciato come un vile sulla prima donna che ti era passata davanti. Avevi accettato un grosso compromesso, calpestando la bandiera. Non avevi disdegnato l’inferno e le sue brutture. Ti eri gettato a capofitto nella meschinità, nelle oscurità, probabilmente perché non avevi avuto niente di meglio nella vita se non anfrattuosità, spelonche, caverne, deserti montani. Le tue ambizioni si erano seccate sul nascere. I cromosomi fedeli e custodi di queste bramosie, si erano accartocciati su se stessi, prima ancora di aver espresso le loro potenzialità. Con tutto l’odio e il rancore verso la grassona, avevi trasferito i geni che avevano espresso informazioni falsate, sbagliate, non genuine. La sequenza adenina-citosina-timina-guanina si era completamente sovvertita e aveva generato un’aberrazione cromosomica. Avevi concepito dei mostri in un marasma di sentimenti ostili, iniquità, speranze ripiegate su se stesse e mai realizzate. I tuoi geni li avevo ereditati tutti quanti, avendo ricevuto dei mattoni indispensabili per costruire una casa pressoché perfetta se non fosse che ne avevi alterato l’ordine. Il mattone numero “uno” forse era finito nel tetto anziché nelle fondamenta e così molti altri si erano trovati in posizioni sbagliate. Il tuo seme conteneva questi mattoni scheggiati, in parte frantumati che avevano perso la loro funzione di sostegno. Anche se ormai inutilizzabile, avevi continuato a trasfondere geni infettati, come tanti cluster impazziti, con il tuo seme. Fino a quando avevi avuto il coraggio di graffiare con un’arroganza che era puro egoismo? Io ero stato l’ultimo frutto di questo odio. Dopo la mia nascita, avevi finito di aggredire il mondo; avevi deciso di eclissarti per sempre, avendo raggiunto il vertice di una parabola molto spigolosa. Dopo di me, ti aspettava una rovinosa caduta nella miseria. Se fino ad allora l’Italia ti era sembrata sufficientemente grande per offrirti un riparo, dopo il mio concepimento, si era così ristretta da non lasciarti nessuno spazio di fuga. Avevi anche pensato di sconfinare, di allargare il tuo orizzonte verso confini stranieri. Avevi pensato di passare nella vicina Svizzera o di trasferirti in Francia, in Germania o in chissà quale stato… ma la parabola della vita non ti aveva portato tanto in là e ti aveva condotto dritto dritto verso la fine.

Avevi fottuto una donna con cattiveria perché lei ricevesse dentro di sé un seme meschino, ignobile, senza sperare in un improbabile miracolo che avrebbe aggiustato la lunga sequenza di DNA rattrappito e ti avrebbe portato ad amare la progenie. Avevi sbagliato i calcoli perché tu avevi conosciuto una donna diversa dai tuoi sogni. Nell’intimità, avevate inibito la normale espressione genetica dei cromosomi. Avevi scartato l’eden mancato con disprezzo e con insoddisfazione. Ti eri buttato su di lei con tutta la potenziale cattiveria per raggiungere l’idillio paradisiaco. Sì, c’era voluto per forza un orgasmo, una scopata per tranquillizzarti, per decomprimere quella insoddisfazione che si era ingrossata a tal punto da scoppiare nel cuore, ma avevi anche raggiunto un livello così infimo che non ti era mai più stato possibile risalire per riconquistare la dignità perduta. Al paradiso avevi preferito l’inferno, avevi voluto rimanere nello squallore in cui avresti navigato per sempre.

Ero nato in una confusione primordiale. Il destino tuttavia aveva svolto il suo compito con assoluta precisione. La trascrizione del DNA delle due cellule era stata perfetta. Tutto l’odio era stato ricopiato fedelmente. Avevo avuto tutto ciò che mi avresti potuto dare: gli occhi marroni, l’incapacità di venire fuori da una qualsiasi situazione di emergenza, l’oscillazione tra un mondo perfetto e uno perfettibile, le pulsioni mai quiete e tranquille, il tentennamento tra i dubbi esistenziali, la mancanza di un punto di riferimento e l’angoscia di non sentirsi parte dell’universo. Le proteine erano state trascritte nel miglior modo possibile, ricalcando fedelmente gli errori, gli sbagli, la confusione creata dai cromosomi.

Nello specchio ho visto oltre alla patina biancastra, un essere simile che ricalcava in fondo i miei lineamenti. Ti ho fissato con tale intensità per cogliere l’anima e per un momento ho creduto di esserci riuscito. Ho scorto in uno squarcio, tutte le tue paure. Sono riuscito a vedere amarezze, sentimenti di nullità, desideri di alienazione, vite sprecate, sbattute via nel vento, beffate dal destino. Ho guardato così profondamente e ho scoperto che le nostre vite fino allora avevano percorso piani diversi, due strade parallele, destinate a non incontrarsi mai. Qualcosa si è spezzato sul bus dell’AVT, i piani si sono reclinati, inclinandosi fino ad incontrarsi. Ho scoperto che per quanto distanti tra loro, le nostre vite correvano verso lo stesso destino, una meta comune. Eri stato tu che mi avevi trasferito i comandi del vivere, eri stato tu che mi avevi relegato nella solitudine andandotene, eri stato tu che mi avevi sempre condotto su quella linea parallela accanto alla tua; anche se non mi avevi mai sgridato, anche se non mi avevi dato da mangiare o fatto da padre, dovevo sapere che tu mi camminavi accanto in una dimensione diversa. Anch’io ero destinato alla stessa insoddisfazione che ti angosciava, anch’io dovevo patire le conseguenze della tua inettitudine. Dovevo portare a compimento un destino tramandato ormai chissà da quante generazioni; prima di passare il testimone di questa lunga staffetta, tu avevi dovuto annientarti. Io dovevo correre per un tratto che mi era stato assegnato e avrei dovuto consegnare il testimone a sua volta a mio figlio o a chiunque si sarebbe presentato sulla via. Avevo una grossa responsabilità generazionale senza saperlo. Per tutta la vita, ben diciassette lunghi anni, avevo corso senza un motivo. Avevo iniziato a respirare senza che nessuno mi avesse spiegato perché, quanti crampi di fame e quanti pianti perché mancava il latte per saziarmi. Mi ero ritrovato sulla scena del mondo senza un copione o una regia. Avevo avuto soltanto il comando di vivere quando era stato imposto al mio cuore di battere e ai polmoni di espandersi. Mi ero ritrovato a correre. La forza me l’avevi data tu, concependomi. Da quel momento, ti eri potuto fermare, soddisfatto o insoddisfatto, non importava, del tuo cammino. Non avevi raggiunto uno scopo, avevi semplicemente corso anche tu all’impazzata sbattendo molte volte la testa contro spigoli di odio, di malinconia e di rimorsi. Dovevi ora aspettare la fine dei tuoi giorni, rimanendo seduto sulle panchine di una città, ai bordi di qualche marciapiede. Il tuo cuore ormai poteva disobbedire al comando iniziale della vita, così come i polmoni (ne avevi perso uno nella corsa pazza). Ti era dunque permesso di marcire tra ricordi e incapacità di vita. Non mi avevi insegnato niente, caro padre. Tu eri stato il più grande assente della mia vita. Mi era stato nascosto tutto, ogni cosa che riguardasse te. Come avrei voluto sapere chi fossi e conoscerti molto tempo prima, quando avevo davvero bisogno di te. Ero stato all’oscuro su ogni cosa che riguardasse la tua persona, mi era stata negata anche la minima informazione come se il tuo fallimento mi potesse nuocere. Ciò che mi aveva fatto più male, era stata la tua assenza e non il sapere che fossi un poco di buono, perché io conoscevo tutto di te, bastava che mi guardassi dentro. Avevo i tuoi geni che mi avevano parlato più di coloro che avevano in tutti modi taciuto sulle tue reali condizioni. Sicuramente, mi avrebbe fatto meno male vederti piuttosto che negarmi tutto. Che male avrebbe potuto farmi un alcoolizzato? Se ti avessi conosciuto, almeno avrei avuto un punto di riferimento, avrei potuto conoscere l’artefice di una personalissima disgrazia, avrei potuto commiserarti o odiarti. Invece avevo ricevuto solo un silenzio mortale, un vuoto gigantesco. Tuttavia la verità era più fragorosa di un qualsiasi silenzio omertoso. Il risultato era evidente, più avevo corso, più avevo perso le coordinate, più avevo cercato dei punti di riferimento più i cartelli erano diradati. Avevo vissuto solo su una landa desolata. Non c’era stato male peggiore che l’incertezza di possederti. Te ne eri andato dimenticandoti di colui al quale avevi passato il testimone della tua vita e di chi aveva ricevuto in regalo un’esistenza nuova per merito tuo. Sì, ti eri completamente dimenticato della mia vita e quella degli altri figli. Non ti era minimamente balzata in testa l’idea di sapere chi avessi concepito. Avevi raggiunto il vertice della parabola con l’orgasmo ed eri caduto subito dopo. Avevi creduto di poter vivere la tua vita senza rispettare gli impegni che avevi preso con altre vite sbocciate. Tu non eri mai venuto in mio aiuto, non ti eri neanche posto il problema di chiedermi chi fossi. Di conseguenza avevo dovuto compensare la tua mancanza con un surrogato; prima di andare a letto mi portavo con me delle idee dolcissimi costruite ex-novo sulla base delle mie esigenze. Tu eri l’orsacchiotto di peluche con il quale mi addormentavo. Ogni giorno che passava, io urlavo il tuo nome nel silenzio della notte perché tu eri un’esigenza e io dovevo saziarmi di te. Non eri mai venuto accanto al letto per consolarmi, per zittire lo strazio delle grida. Dov’eri quando la paura più nera mi insediava il cuore? Non avevo mai potuto contare su di te, non ero mai tornato da scuola soddisfatto per una pagella discreta che ti avrei fatto vedere con orgoglio; non avevo mai potuto vantarmi davanti al consiglio di istituto di avere un padre che fosse interessato a suo figlio, avrei voluto confidarmi con te, magari per dirti che avevo iniziato a fumare così per gioco durante le scuole dell’obbligo. Non avevo mai avuto il piacere di essere andato ad un concerto o al mare con te. Non mi avevi insegnato i tuoi valori, quale fossero le cose giuste e quali quelle sbagliate. Mi avevi in compenso lasciato un’impronta sulla mia pelle, poco visibile. Qualcosa si era fossilizzata, lasciando un segno. Il mio respiro era uguale al tuo, il mio cuore pulsava come l’avevi programmato tu all’inizio. Tutto del mio corpo era perfetto, era mancato soltanto l’artefice, l’esperto che avrebbe dovuto calibrare i meccanismi, che avrebbe tenuto sotto controllo tutti gli ingranaggi. Non avevo mai saputo quanto emozionarmi per un bellissimo evento, quanto ridere nella felicità, quanto silenzio ci fosse nella serenità. Non mi avevi mai dato dei parametri, dei limiti entro cui vivere.

Ecco, all’improvviso ti ho visto dopo un atroce e lungo silenzio. Ti avrei mai riconosciuto, se non ti avessi visto pochi giorni prima e se i carabinieri non mi avessero assicurato che quella persona che avevo incontrato, fosse proprio te? Avrei saputo raccogliere nell’impalpabile atmosfera di novembre qualcosa che mi apparteneva? Sarei stato capace di percepire la tua presenza dopo un lungo silenzio? Non sapevo dare una risposta ad una simile domanda. Mi sono sentito in una situazione imbarazzante. Io ero lucido, tu non sapevi se fossi ancora al mondo. Come avrei potuto spiegare a coloro che stavano assistendo alla scena, che tu eri mio padre ed io tuo figlio, che per una coincidenza inimmaginabile ci eravamo trovati di fronte faccia a faccia? Ho provato vergogna, ti ho rifiutato a livello epidermico, avrei voluto barricarmi dietro alla mie sufficienze che avevi distrutto e che avresti dovuto ricostruire. Ho voluto difendermi da uno spauracchio per un motivo umanamente giusto e comprensibile. Mi sono rinchiuso nelle spalle, mi sono tappato il naso e mi sono avvicinato. Tu mi hai guardato e solo in quell’istante mi hai riconosciuto. Ho cercato di essere disinvolto nonostante mi sentissi impacciato in ogni minimo gesto. Ti ho salutato nel modo più naturale che fossi riuscito in quel momento.

“Ciao Papà!”, ti ho sussurrato, quasi per non farmi sentire dagli altri, accompagnando il saluto con un sorriso sincero tra le labbra tese. Ti ho abbracciato, dandoti due baci, uno per guancia. Che sensazione! Ho pensato che il cuore si fermasse dall’intensità dell’emozione. Era la prima volta che ti toccavo, che riuscivo a mettermi in contatto con te. Ho abbracciato uno scheletro coperto da stracci unti, già, un fantasma. Mi sarei messo a piangere lì a dirotto, se non avessi pensato che sarebbe stato talmente ridicolo e insensato un atteggiamento simile davanti a tutti. Eppure ho sentito qualcosa spezzarsi dentro di me, ho provato un dispiacere immenso che voleva uscire con impellenti e necessarie lacrime. La corda troppo tesa dell’incanto, si è rotta in quell’abbraccio, facendomi indietreggiare. Dovevo assolutamente lasciarti, non avevo più legami con te. Non hai saputo dirmi niente in quell’abbraccio, mi hai trasmesso un vuoto inquietante e spaventoso. Mi sono distaccato da te, abbassando gli occhi per non vederti. Umiliato fin nel profondo dell’anima, solo allora ti ho negato con forza. Ho stracciato l’immagine che avevo conservato fino all’abbraccio. Ho cercato di allontanare da me quella grossa sconfitta. In un attimo ho soffiato con tutto il fiato che possedevo, sul santuario che ti avevo costruito, spazzando via anche quelle ultime macerie che erano rimaste in piedi. Ho fatto precipitare completamente il castello di carte, disperdendole il più lontano possibile da me. Le avrei raccolte più tardi per riporle nella loro custodia, chiudendo definitivamente a chiave un mondo che non mi era mai appartenuto. Ero deciso nel modo più assoluto di abbandonarti. Questa volta avrei deciso io senza farmi distrarre da nessuno, senza farmi tentare da ulteriori chimere. Mi ero completamente disilluso, avendo compreso e toccato con mano la verità. Tu eri uno scheletro vivente, niente più che un avanzo di una società spietata. Mi sono allontanato da te, indietreggiando e tenendo gli occhi per terra, e mi sono voltato di scatto. Ho alzato gli occhi e ho visto tutta quella gente che mi accompagnava sul bus dell’AVT. Ho sentito uno sguardo unico puntato su di me e ho abbozzato un sorriso mentre i miei occhi erano umidi. Mi sono passato la mano sulla guancia per cancellare qualche lacrima che era caduta a tradimento nella mia umiliazione. Mi sono ravvivato i riccioli, ho guardato fuori. Non ho riconosciuto dove mi trovassi. Quella Varese della quale fino allora conservavo un carissimo ricordo, mi sembrava adesso così estranea. Che cosa ci facevo in quella città, perché avevo preso quel bus, perché ti avevo incontrato? Il viale lasciava spazio ad una piazza. Istintivamente ho alzato la mano e ho schiacciato il pulsante per la richiesta di fermata. Se fossi dovuto scendere, sarei dovuto voltarmi e portarmi alla predella. Ho esitato a voltarmi. Sapevo che dietro le mie spalle c’eri tu. Ero fermamente deciso di non volerti vedere mai più. Non avrei retto, avrei messo a dura prova la mia santità morale se mi fossi avvicinato ancora a te. Avevo deciso di chiudere definitivamente con te per quella mattina e per il resto della mia vita. Ormai ero cresciuto, ormai avevo imparato a correre verso la meta dei miei sogni e progetti, ormai non rimaneva altro che gestirmi al meglio quella vita che nel bene e nel male, mi era stata data. Capivo che se non eri arrivato fino allora, non avrei mai più avuto un futuro con te. A maggior ragione dopo averti visto in quella spregevole condizione. Tu eri mio padre e io ti rifiutavo. Tanto, avevo già molto di tuo dentro di me che non avrei mai potuto togliermi di dosso. Preferivo il castello di carte anche se era andato distrutto dopo averlo costruito con tanta meticolosità e pazienza. La speranza di avere un padre bello e buono dei sogni adolescenziali era definitivamente morta dopo averti incontrato. Avrei dovuto illudermi che all’ultimo minuto arrivassi tu a rassicurarmi e condurmi sulla retta via per il resto dei miei e dei tuoi giorni? No! Quella vita che avevo vissuto, era stata tutta un’illusione, il testimone che mi ero trovato tra le mani, era un oggetto fittizio, irreale, uno specchio polveroso e rigato. Non ti era concesso di riprenderti quanto avevi lasciato. Non avresti mai avuto indietro la mia vita. Sarebbe stato inutile tornare indietro per raccogliere le lacrime che ormai potevano essere già fossilizzate o evaporate. Sarebbe stato controproducente e dannoso andare a cercare le tracce lasciate da quelle gocce salate. Tu non mi avevi mai voluto bene e a pensarci bene, nemmeno io. Avevo cercato di amare un’immagine bellissima, ritagliata su misura per le mie esigenze, ma non era altro che un’illusione. Dopo l’abbraccio, avrei vissuto senza più illusioni.

Mi sono sentito ad un tratto, desolato, amareggiato, spossato. Una peso si è adagiato sulle spalle. Non lo reggevo più. Ho percepito che qualcuno mi stava toccando un braccio, ma non ho voluto dare retta a quella sensazione. Poteva essere ancora un’illusione. Ho preferito seguire l’istinto. Mi sono allontanato e mi sono avvicinato bruscamente alla portiera quando il bus si è arrestato. Aperte le portiere, ho spiccato un balzo su una piccola folla di persone e ho messo piede finalmente sulla strada. Non ti ho dato la possibilità di seguirmi. Anche se fossi sceso con calma, prima che ti rendessi conto e ti muovessi, non saresti riuscito a venirmi dietro. Le portiere centrali si sono richiuse davanti a me come per magia mentre il bus si stava muovendo. Nessuno era sceso, perché mi sono trovato solo sulla strada. Ho sentito spezzarsi gli innumerevoli sguardi che pesavano su me e ho percepito che quel gesto era stato il mio primo e ultimo addio. Ormai grondante di lacrime che non riuscivano a fermarsi, ho visto annebbiarsi il bus che spariva oltre la piazza. Ti allontanavi per sempre da me, in modo irreversibile. Ti ho detto addio senza rimpianti. Mi sono detto che quel barbone che avevo incontrato pochi istanti prima non poteva essere mio padre che invece, era bello, caldo e profumato. Consolandomi con le mie stesse braccia, raggomitolandomi per quel che potevo, mi sono appoggiato con le spalle contro un muro e ho chiuso gli occhi per finire di piangere.

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