il mondo creato

di Franco Ferrucci


Mi rividi bambina, tanti anni addietro, davanti a quella stessa finestra. La nostra casa di Pietroburgo era stata distrutta da un incendio, e ci eravamo rifugiati in campagna in attesa che la ricostruissero. In quel periodo di solitudine e di sconforto avevo scoperto la lettura dei libri; quelli che erano scampati al fuoco ed erano stati stipati in un baule come naufraghi su una scialuppa. Li lessi tutti e poi andai in cerca di altri libri; alla fine raggiunsi la verità che mi avrebbe accompagnato fino al termine dei miei giorni. Essa mi intimidì talmente che la chiusi dentro di me come una fantasia che non si può trasmettere.

Com’ero bella da giovane! Lo specchio della mia stanza mi restituiva un’immagine ben diversa da quella che contemplavo da vecchia; e finii con l’innamorarmi di me e con lo sposare un uomo nei cui occhi vidi una eguale ammirazione per la mia propria bellezza. Fare all’amore mi dette una gioia schietta e sinuosa, come se in quell’atto mi fossi conosciuta davvero e senza infingimenti; paragonai quel momento alla scoperta dei libri che ancora riempivano le mie giornate, assieme alla musica e alle passeggiate nei campi e nei boschi. Ma pur sempre parlavo a me stessa. Ero innamorata di me anche nel modo in cui ballavo, tanto che il mio compagno di danza poteva sembrare senza volto e io a stento distinguevo l’uno dall’altro.

Una notte mi svegliai accanto a mio marito assopito, ancora nudi dopo la stretta amorosa; e sull’istante non lo riconobbi. Poi il suo nome tornò a me, ancor prima del ricordo del suo viso; e rimasi a giacere come in terra estranea, coprendo la mia nudità. Nel buio della stanza da letto entrò un raggio di luna; lo vidi toccare i mobili della stanza, lo specchio, i tappeti, la bianca sopracoltre e le lenzuola; su tutto sparse una polvere argentea. Lo rimirai senza fiato, come si guarda una visione; e lo vidi sparire dalla finestra da cui era entrato. La stanza tornò oscura e provai un senso di dolore; mi alzai quietamente, mi vestii in silenzio e scivolai fuori nella notte invernale.

La luna era scomparsa, e io camminai guardando il cielo macchiato e simile a un. Letto in disordine. Il vento accavallava e nuvole e le scomponeva in figure bizzarre; avvolta nella pelliccia e nel colbacco, dentro gli stivaloni da neve, sembravo a me stessa perduta giù in terra come l’astro amico là in alto; e mi chiesi a che cosa servisse la mia vita. Non sapevo rispondere. Era come se un giorno l’avessi saputo, anche per un momento, e poi me lo fossi scordata. Non mi era restato che innamorarmi di me stessa, come .un deluso amante, perché non avevo voluto seguire la verità! Questa idea mi colpì con tale forza da tramortirmi; vagai per ore nella notte, seguendo l’amica che mi aveva svegliato, fin quando sparì dietro un banco di nubi e declinò oltre l’orizzonte; e io rimasi nella notte fredda, senza sapere dov’ero. Mi sedetti nella neve e quasi mi addormentai nel gelo dell’alba.

Lì mi trovarono quando la slitta mi raggiunse. Mi avevano cercato ovunque e ora mi riportavano a casa. Mio marito era seduto accanto al cocchiere che frustava i cani; la nutrice mi stava vicino e badava a ricoprirmi di coperte. Capii allora che sarei morta se non mi avesse- ritrovato e mi assorbii a contemplare il paesaggio che scorreva accanto a me. Il sole spuntava alla mia destra, guizzando dietro un bosco di querce e di abeti, quasi un uccello che saltasse da un ramo all’altro per non perdermi di vista; dall’altra parte la campagna si era avvolta in un velo rosato tenue e forte; nella neve le colline e le case spiccavano come fiori che si destano. Guardavo i cani che correvano sulla neve, sentivo le mani della nutrice che riscaldavano le mie mani, mi concentrai sulla frusta del cocchiere, fra il sole al galoppo e i campi inondati di luce fredda; e in quel punto mi riattaccai alla vita, in una sorta di tacito giuramento. Guizzava, la slitta sul ghiaccio!

Accettare la vita volle dire riconoscere la mia vera natura,imprigionata nella coscienza come una pietra preziosa che non mostravo ad anima viva. Anch’io ne sopportavo a fatica il bagliore; andavo a guardarla in momenti che somigliavano alla corsa in slitta nell’alba magica del mio ritrovamento. Dovevo fare qualcosa per rispondere alla sua presenza; i libri la musica e le passeggiate all’aperto non mi bastavano. Uscii da me, mi estesi nel mondo, fui simile alla campagna pervasa dalla luce del sole che quel giorno mi corse accanto. Il mio corpo conteneva le colline, e anch’io ero pianta nei momenti di solitudine ma anche acqua che non si arresta sotto la crosta gelata. Andai oltre me stessa, come fa la campagna in ogni stagione. Quando diventai madre mi apparve chiaro che il figlio nasceva dall’angolo dentro me dove stava nascosta la chiarità tranquilla.

In realtà io avevo vissuto varie vite in una sola. Cominciò l’epoca del regno materno, che mi condusse in un viaggio rapido e denso ai confini dell’età matura. Vi portai una gioia non meno forte di quella che ancora mi prendeva se mi guardavo allo specchio nelle corse da un bambino all’altro, tra le cure della casa di cui ero padrona. Grazie ai figli crescevo di nuovo in una estesa gioventù; la mia bellezza era un regalo che offrivo. L’amore di cui ero custode usciva all’esterno di me; per anni mio marito mi guardò correre nella casa e nel giardino, rassegnato a ricevere il riverbero del volo. I figli furono i frutti della mia pianta.

Sapevo che cosa avevo cercato. Nel mattino di sole mi era apparsa la mia propria divinità, ma io non potevo accettarla se non riversandola sulle mie creature. Corsi dietro la vita che usciva da me e fui madre dei miei stessi sogni. Nicolai e Anton mi invasero per più di vent’anni.

Ora, ormai vecchia, avevo afferrato Dio nel suo passaggio e non lo avrei lasciato andare via senza prima raccontargli di quella notte e dell’alba, della grande attesa, e di come la speranza fosse andata delusa. I miei tigli crebbero come se uno fosse la violazione dell’altro, entrambi incompleti e infelici. Nicolai diventò medico, si sposò presto e si chiuse in una vita provinciale e mediocre dalla quale talvolta cercavo di scuoterlo. Andavo a trovarlo nella sua grande casa ai sobborghi della cittadina in Georgia; passavo attraverso la conversazione con la moglie che certo non mi amava, e i giochi con i bambini di cui la casa fu in poco tempo disseminata. Non mi capacitavo di essere diventata nonna; ogni mattina, al risveglio, era come se avessi vent’anni, e venivo colpita, con la violenza di sempre, dalla percezione del miracolo che avveniva nell’attimo in cui aprivo gli occhi. Quando infine riuscivo a parlare con Nicolai mi trovavo davanti un uomo stanco e deluso che aveva rinnegato le proprie speranze e a malapena tollerava che gliele riportassi alla mente. Mi faceva male che bevesse vodka mentre parlavamo e che già pensasse a una pensione tranquilla, senza più gente intorno, in un’attesa nostalgica del trapasso. Una valanga era passata sulla sua anima e l’aveva lasciata dolorante e deserta. Me ne andavo con un senso di pena e finii con l’interrompere quelle visite.

Anton odiava suo fratello maggiore, il quale incarnava tutto ciò che egli ambiva distruggere. Fin dall’inizio vidi la sua vita evolversi in un costante rovesciamento di ogni cosa che Nicolai impersonava. Rifiutò di sposarsi e di fare carriera, non toccò liquori, desiderò una morte rapida, senza mai raggiungerla; abbandonò gli studi per entrare in una setta anarchica e poi in un gruppo di rivoluzionari che vivevano nascondendosi e progettando sommovimenti radicali. Non sapevo mai dove abitasse, cosicché toccava a me ricevere le sue visite Inattese e rapide; lo vidi passare attraverso due rivoluzioni fallite, scampando ogni volta alla cattura. Una volta si nascose da me e fu 1’unica nostra occasione di parlare a lungo in tanti anni. Ne uscii sconfitta, in un modo diverso dai miei rari colloqui con Nicolai. L’arroganza di Anton era illimitata come quella di un fanciullo triste; per lui anch’io facevo parte di un assurdo mondo da abbattere al più presto. Ai suoi occhi io ero la madre di Nicolai; si sbarazzò di me con dure e ironiche parole, e rimasi sola a meditare sul mio fallimento. Quella notte ebbi un sogno in cui vidi un animale a due teste che correva per il mondo senza trovare requie.

Non mi piacque quel sogno e affrontai il suo significato. Me ne andai di casa il giorno dopo e mi chiusi in una dacia sulle rive di un fiume. Avevo con me i libri di cui mi ero nutrita nella veglia della vita; rileggevo i romanzi della mia giovinezza, esploravo i filosofi che mi giungevano tradotti nella lingua russa; ma soprattutto stavo da sola. Ritrovai me stessa da giovane, come un’amica che era sparita da tempo e a cui avevo pensato nei momenti di reverie del passato. Ero stata sposata tre volte, una con mio marito e due con i miei figli maschi; e a questi ultimi avevo dato un amore che il primo non aveva conosciuto. Guardavo la neve che cadeva, e sentivo che era l’attesa del ritorno del sole che rendeva quello un evento gioioso. Dovevo capire dove mi ero perduta.

Imparai a dormire da sola. Compresi tardi perché mi ero sposata: mio marito era stato il custode del mio sonno negli anni da me attraversati nella paura di una casa vuota. Non mi ero sentita colpevole perché ero certa che Nicolai e Anton sarebbero usciti dalle mie notti a sfidare le tenebre. Ora l’illusione era estinta e io affrontavo me stessa nel buio. Non c’era libro che potesse insegnarmi ciò che imparai in quella insonnia. Ne uscii un mattino simile a quello di tanti anni prima. Mi separai da mio marito e andai a vivere per conto mio.