l’eletto

di Thomas Mann


Con che cura vennero ora allevati i due nobili gemelli! Esperte donne, nutrici dalle ampie cuffie che coprivano la fronte e il mento si occupavano di loro, li imboccavano con dolce miele vergine e pappa, facevano loro il bagno in acqua di crusca, lavando loro le gengive con vino, affinché più presto e più facilmente spuntassero i dentini da latte e abbellissero il loro sorriso. E i dentini spuntarono facilmente e senza molti piagnucolii ed erano come perle, eppure molto acuti. Ma appena i due gemelli non furono più nelle fasce, non più due tenerissimi fiori appena sbocciati, quella dolce luce che avevano portato da lassù si perdette, la coprì come un’ombra di nube. I gemelli cominciarono, per così dire, a oscurarsi e ad assumere figura terrena, ma, intendetemi bene, la più graziosa delle figure terrene. La peluria sulle loro testine si mutò in una chioma bruna e liscia, che si addiceva benissimo all’eburneo pallore latino dei loro visetti finissimi e della pelle dei loro corpi che crescevano rapidamente. E questo colore era palese retaggio di avi lontani, non dei loro genitori, perché madonna Baduhenna era stata bianca e rossa come una mela e il volto di messer Grimaldo era di color cinabro. Gli occhi dei due bambini, raggianti da principio una pura luce azzurra, cominciarono a oscurarsi sempre più profondamente e a diventar neri con un riflesso azzurro nel fondo, uno splendore raramente veduto e quasi misterioso che non aveva più nulla di celestiale, se bene non sia detto che alcuni angeli non possano avere tali occhi, cupamente azzurri come la notte. Inoltre tutt’e due avevano un modo speciale di sogguardare, come se stessero in ascolto o attendessero qualche cosa. Se qualche cosa di bene o di male, non so.

A sette anni, al tempo della seconda dentizione, furono colpiti da varicella e, poiché si grattarono, restò loro un segno sulla fronte, una cicatrice, un piccolo solco, a tutt’e due sullo stesso punto e a tutt’e due della stessa forma, la forma di una falce. Su questa cicatrice ricadeva la loro capigliatura serica e bruna, e talora messer Grimaldo scherzando la ributtava indietro per fingere meraviglia, quando le donne a cui erano affidati gli conducevano i bambini una volta il giorno, sempre alla stessa ora, là davanti allo sgabello dove, con un boccale di claretto a portata di mano, egli era solito sedere. Le nutrici indietreggiavano di parecchi passi nella sala, sorridendo, chinando il capo, per non disturbare quella nobile felicità familiare con la loro umile vicinanza. Oppure restavano piedi sulla soglia e lasciavano che i piccoli -Sibilla nel suo vestitino trapuntato (o quale altro termine si usa per disegni tessuti ad arte con filo d’oro), Wiligis nel suo camiciotto di liuto dai bordi di castoro, tutt’e due con i capelli sciolti sulle spalle -andassero da soli davanti al padre, a cui Wiligis già sapeva fare un inchino secondo belle maniere. «Deus vus sal, caro nobile messere» dicevano con le loro vocette rese un po’ fioche dalla timidezza. E poi il padre chiacchierava e scherzava con loro, li chiamava .’gent mignote de soris” e cari campagnucci, domandava della loro giornata e finalmente li congedava raccomandandoli al Saint Esperit, e dava uno scapellotto a Willo, ma baciava Sibilla. Diceva: «Statevi bene!»: ed essi rispondevano insieme con le loro vocette fioche: «Dio vi rimeriti», e si allontanavano da lui camminando all’indietro, secondo cortese usanza, mentre le donne dalla porta si affrettavano a raggiungerli e li prendevano dai due lati, mentre si tenevano ancora per mano.

Ma essi si tenevano per mano, passo per passo, anche quando furono già grandicelli ed ebbero otto, dieci anni ed I ano come un paio di pappagalletti, sempre insieme, notte e giorno, perché dormivano nella stessa camera, su nella torre, intorno a cui squittivano le civette. Là erano i loro letti, letti eleganti, con guanciali con cinghie di pelle di salamandra, poggianti su piedi serpentini. I materassi sotto i guanciali erano riccamente imbottiti. Alla donna, che, per compagnia e sorveglianza, dormiva ancora con loro su un semplice giaciglio, domandavano spesso: «Noi siamo ancora piccoli, non vero?» -«Sì, due tortorelle, due care, nobili tortorelle.» -«E rimarremo ancora a lungo piccoli, non è vero, n’est-ce voir?» -«Oh, sì, seurement, tesori, ancora un bel pezzo!» -«Ma noi vogliamo restar sempre piccoli sulla terra » dicevano essi. -«Così abbiamo concertato ragionando fra noi.In tal modo diverremo più facilmente degli angioletti. Deve esser molto difficile con pancia e barba e petto diventar degli angioletti, quando si muore.» -« Ah, pazzerelli, que Deus ,dispose! Ma egli non vuole che si rimanga sempre bambini, qualunque cosa voi abbiate concertato. Deus ne volt.»- Ma se noi ci castighiamo non dormendo per tre notti e preghiamo soltanto che Dio ci mantenga piccoli?» -« Sentite la cara ingenuità! No, no! Voi dormirete, e nel sonno crescerete e diverrete sempre più belli.»

E così avveniva. Non so se essi tentassero veramente di far quella penitenza, vorrei credere che le parole della donna li avessero scoraggiati. Gli anni comunque passavano e sul castello e sul paese: passavano con le loro ghirlande fiorenti, le loro gialle foglie, le loro gelide nebbie, i loro prati di nuovo verdeggianti e i gemelli ebbero di mano in mano nove e poi dieci e poi undici anni, due boccioli che volevano schiudersi, o,se non proprio volevano, tuttavia non potevano fare ameno. Due giovani, belli, nei pallidi volti con seriche sopracciglia, mobili occhi, sottili vigili narici, labbra superiori un po’ tumide sulla bocca fine e seria, due corpi che andavano delicatamente formandosi secondo il loro diverso fine ma non ancora pienamente sviluppati secondo le proporzioni, un po’ simili a giovani cani con zampe troppo pesanti. Quando Wiligis la mattina, imbaldanzito dal sonno, nudo come un giovane dio pagano, il segno di falce tra gli arruffati capelli, saltava intorno alla tinozza posta davanti al suo letto, nella quale galleggiavano foglie di rose, la cosa per cui si distingueva dalla sorella, le sue parti virili, comparivano troppo grandi e sviluppate in confronto del corpo magro ed eburneo. Il veder questo in certo modo mi immalinconisce. Così fanciullescamente delicata e attenta la piccola testa sulle esili spalle, e poi laggiù, un siffatto villanzone! Ma le donne schioccavano devotamente la lingua, con grandi occhi si guardavano dicevano: «L’espoirs des dames!». La damigella intanto, quale bocciolo appena schiuso, sedeva sulla sponda del letto, anch’essa con il suo segno ben visibile sulla fronte, poiché per la notte aveva pettinato indietro i capelli, e guardava in tralice, quasi cupamente, il fratello e le donne ammiranti. Io so quel che pensava. Ella pensava: «Io vi farò… l’espoirs! Mio è il mio fedele compagno. Caverò gli occhi alla dama che avanzi pretese su di lui, e non per questo mi lascerò punire, io, la figlioletta del duca!».

A lei era addetta una nobile vedova, una contessa di Cleve, con la quale seduta nel vano della finestra cantava i salmi e che le insegnava a tessere stoffe con fili preziosi. Il junker aveva invece un gurvenal di nome messer Eisengrein, cons du chatel, voglio dire di un castello circondato da acque, una Wasserburg, con fossati larghi e profondi e un battifredo che spaziava lontano sul mare, perché il castello si trovava laggiù nella pianura, nella contrada che si chiamava Rousselaere e Thorhout, vicinissimo al mare. (Fate attenzione, ricordatevi questo castello vicino al rumoreggiante mare! Avrà in seguito ancora una parte nella nostra storia.) Di là messer Eisengrein, uno dei migliori del paese e fedele vassallo, era espressamente venuto su a Belrapeire, sebbene avesse moglie e figli, per essere gentiluomo del junker e suo maistre de corteisie. A costui era stato dato inoltre per più rudi ammaestramenti il mastro scudiero Patafrid. Se infatti messer Grimaldo aveva preferito sempre la fanciulla al figlio per quel riflesso di luce celeste e quanto più il bocciolo si schiudeva tanto più la trattava con galanteria e tenerezza, mentre invece si mostrava sempre più rude con il junker, nondimeno era paternamente sollecito della sua buona educazione perché era l’erede, e ordinò che diventasse un om de gentilesce, afeitié, bien parlant ed anseignié. Così imparò da quei due le regole cavalleresche e i gentili costumi. Da Patafrid imparò, anche se in verità con non troppo piacere, a saltar sul cavallo senza staffe, e da messer Eisengrein come, cavalcando per diletto senza armatura alcuna, s’abbia a porre una gamba leggermente avanti a sé sul cavallo. Con il mastro scudiero doveva combattere una giostra in schinieri di ferro di Soissons e imparava come si mira con l’asta sui quattro chiodi dello scudo dell’avversario, combattimenti in cui Patafrid per fargli piacere qualche volta si lasciava scavalcare e offriva pace. Imparava anche come si scaglia il giavellotto e come si deve imbracciare la lunga lancia quando si muove all’assalto. Con il suo gurvenal e con i falconieri andava a caccia di uccelli nella foresta, imparava a lanciare dalla mano gli uccelli da richiamo ammaestrati e a imitare perfettamente con una foglia la voce della selvaggina così che ogni animale credeva di riconoscere il grido della propria specie.

Ma che so io di costumi cavallereschi e di caccia! Io sono un monaco, in fondo inesperto e un po’ timoroso di tali usi. Io non ho mai abbattuto un cinghiale, non ho mai lasciato rintronar nelle mie orecchie il suono del corno per l’ultimo inseguimento del cervo, non ho mai sventrato la selvaggina e come padrone della preda non ho mai arrostito sui carboni accesi le parti più ghiotte. Io mi do l’aria di saper raccontare esattamente come il junker Wiligis venne educato, e faccio solo mostra di parole. Non ho mai preso in mano un giavellotto ne mai ho tenuto sotto il mio braccio una lunga lancia; neppure ho ingannato mai soffiando su una foglia gli animali del bosco e la frase «imitare con una foglia la voce della selvaggina », che io uso con tale apparente sicurezza, l’ho udita per caso. Ma questa è la maniera dello spirito della narrazione che io incarno; fingersi esperto e familiare di ogni cosa di cui narra. Anche il buhurd, il divertente gioco cavalleresco che il giovane Wiligis esercitava sul molle terreno della valle ai piedi del castello, gioco nel quale una schiera rompe in carrière nell’altra e cerca di sbalzarla fuori del campo (mentre le dame siedono tutt’intorno al campo su balconi di legno lanciando motti di scherno o plaudendo innamorate) -anche questa azzuffaglia mi è, in fondo, del tutto estranea e piuttosto ripugnante; nondimeno io narro con sicurezza come Willo con la sua schiera si lanciava nella mischia con tanto impeto che il terriccio turbinava nell’aria, Willo, il più bel quindicenne che si possa immaginare, sul suo cavallo pezzato, senza armatura, solo con l’elmo e la gorgiera fatta di leggeri anelli di acciaio che incorniciava il volto pallido e fine di adolescente, col mantello stemmato e il corsetto di rossa seta di Alessandria. Cortesemente lo evitavano, lasciandolo rompere in mezzo alla schiera avversaria, perché era il figlio del duca, e le dame si congratulavano per la sua vittoria con Sibilla, la leggiadra sorella, che sorrideva ansante.

Che la sua vittoria fosse solo apparente mi consola un po’ del fatto che anch’io parlo qui solo con apparente speditezza di cose che non mi appartengono. Ma l’uomo s’infiamma anche per una vittoria apparente, e Wiligis infiammato d’orgoglio, poiché si era stati con lui così cortesi, ritornava al castello e si presentava alla sorella. Anch’ella sapeva benissimo, per quanto lui lo negasse, che nel combattimento volutamente gli avevano usato riguardo e tuttavia, o forse appunto per questo, era non meno infiammata e fiera di lui. Volete sapere come la donzella vestiva per quella festa? Vestiva una veste di velluto di Assagauk verde erba, ben ampia e lunga e lussuosamente drappeggiata, che sul davanti, dove veniva tirata su in larghe pieghe, mostrava la fodera di seta rossa e la sottoveste di seta bianca. La veste terminava stretta intorno al collo eburneo ed era, come ai polsi, orlata di perle e di pietre che sopra il petto formavano un largo monile. Anche la cintura era tempestata di pietre preziose e anche la ghirlanda verginale sopra gli sciolti capelli si componeva di piccoli rubini e di granati verdi e rossi. Più di una fanciulla a questo punto proverà forse invidia nell’udire come io descrivo la figlia del duca, anche perché non posso fare a meno di parlare delle sue lunghe ciglia fra le quali si aprivano gli occhi cupamente azzurri e di riferirne abbassando gli occhi, come a monaco si conviene, che sotto il velluto e le pietre il suo seno già ondeggiava fiorente, per non dir poi delle sue mani, poco più piccole di quelle del fratello ma finissime alle congiunture, con dita affusolate, su alcune delle quali scintillavano anelli, uno nella nocca superiore e uno nell’inferiore. Snella era, graziosa di fianchi, e come nel fratello anche il suo labbro superiore che, un po’ tumido, sembrava continuare la linea del piccolo naso. Le sottili narici, poi, vibravano proprio come quelle di lui.

«Ah, messere e fratello » gli diceva ella mentre lo liberava dalla celata e gli carezzava lisciandoli i bruni capelli «fosti meraviglioso quando dovettero lasciarti rompere attraverso tutta la schiera! Vidi con gioia come le tue gambe si reggevano nelle staffe allorché movesti all’assalto. Qui nessun giovane ha gambe belle come le tue. Solo le mie, in loro diversa specie, sono altrettanto belle. Massimamente le tue ginocchia m’incantano quando abbandoni le gambe e dài di coscia alla bestia.»

«Meravigliosa sei tu, Sibilla» rispondeva egli « meravigliosa per te stessa, senza giostre e senza lotte. Il nostro sesso deve muoversi e far qualcosa per essere meraviglioso. Ma al vostro basta soltanto esistere e fiorire, e già è meraviglioso. E questo è una delle principali differenze tra l’uomo e la donna, per non nominarne altre più particolari.»

«Noi vi invidiamo» disse ella «per quello che da noi vi distingue e che suscita la nostra ammirazione. Noi ci vergogniamo fortemente di essere più larghe nei fianchi che nelle spalle e di avere quindi il ventre troppo grande e anche un derrière troppo voluminoso. Ma questo oso dirti: le mie gambe sono nondimeno cosi alte e snelle, che non hanno da invidiare nulla a nessuno.»

«Hai ben ragione di dirlo» replicò egli «e puoi anche ricordare che noi, se non con invidia, guardiamo con dolce piacere alle vostre diversità. Si può perfino parlare di invidia anche da parte nostra. Dove è infatti il nostro vanto e la nostra bellezza? Noi non abbiamo nulla in tutto il nostro corpo, solo un po’ di forza, è vero, per trarci fuori dal nostro svantaggio.»

«Non dire che non hai nulla! Sediamoci piuttosto qui, nel vano della finestra, e parliamo un po’ del buhurd di oggi. Com’era buffo il conte Kynewulf di Niederlahngau, quello che chiamano “Kurzibold” per la piccola statura, sul suo cavallone nero e messer Klamide, figlio del conte Ulterlec, quando inciampò e cadde e venne a trovarsi sotto il suo cavallo! Al vederlo madonna Garschiloye di Beafontane parve quasi uscir di senno.»

Fecero come ella aveva proposto. Si sedettero sulla panca nel vano della finestra, e l’uno posava le braccia sulla spalla dell’altro e talora anche la bella testa. Ai loro piedi, con il muso fra le .zampe, si era accucciato il loro cane inglese, un scenter di nome Hanegiff, un caro animale, tutto bianco, nero soltanto intorno a un occhio e a un orecchio. Hanegiff divideva anche la loro camera e dormiva sempre fra i loro due letti sopra un materasso di crine di cavallo. Lo sguardo attraverso la finestra andava oltre i tetti e i merli del castello fino alla strada nella valle, orlata da prati e da boschetti che fiorivano gialli. Sulla strada passava lentamente una mandra di pecore vellose. Domandò Sibilla:

«Hai forse avuto occhi per Alisse di Poitou? Hai visto quell’abito grottesco in cui si pavoneggiava, per metà di seta intessuta d’oro, per metà di pelle di Ninive, con gonna rappezzata di variato colore? Molti la trovarono bella». Rispose Wiligis:

«io non ho avuto occhi per la sua pretesa bellezza; ma soltanto per te, che sei a questo mondo un altro me, in forma femminile. Le altre donne mi sono estranee, non mie uguali come sei tu, che sei nata con me. Quella di Poitou, io lo so, si affazzona così bizzarramente per uomini simili a quel gigante di Hugebold o per siffatti ruderi come messer Rassalig di Lorena, quello che ha due volte la mia statura e il mio volume; è pur vero che io sono come un giunco! Ma da quando un’ombra di barba comincia a scurire il mio labbro, più di una dama mi guarda con gli occhi languidi. Io però mi mostro freddo, que plus n’i quiers voirs che te».

Disse ella: «Il re di Escavalon ha inviato una lettera a Grimaldo, il nostro signore, e gli ha chiesto la mia mano, poiché io ormai sono in età da marito e lui non è ammogliato. Lo so dalla mia maistresse, quella di Cleve. Non hai bisogno di eccitarti, perché il duca ha garbatamente rifiutato e gli ha detto che, sebbene in età da marito, tuttavia non sono ancora matura per diventare regina, nemmeno di un piccolo regno come quello di Askalon, e ha consigliato il re di cercarsi un’altra sposa tra le figlie dei principi della cristianità. Ma, in vero, non per amor tuo o affinché noi possiamo restare ancora insieme, il nostro signore ha rifiutato il re. Ma gli ha scritto: “Io voglio sedere a tavola ancora per un po’ con i miei figli; mia figlia a destra e mio figlio a sinistra, e non con il maschio solo e con il cappellano di fronte a me”. Questa fu la ragione del refus».

«Lascia andare» disse egli mentre scherzava con la sua mano e osservava i suoi anelli «quale sia la ragione. L’importante è che non veniamo separati nella nostra dolce giovinezza, prima del tempo, tempo che non voglio sapere quando verrà. Nessuno è degno di noi, ma l’uno è degno dell’altro, perché siamo due creature di alto lignaggio, di straordinario valore, non come gli altri, e tutti devono comportarsi verso di noi graziosamente e devotamente. Siamo nati entrambi dalla morte e entrambi abbiamo dei segni impressi in fronte. Essi sono un residuo della varicella, che è una malattia come le altre, come il raffreddore, gli orecchioni, la rosolia. Ma non importa da dove vengono, sono significativi tout de meme nel loro rilevato pallore. Quando Dio avrà prolungato fino all’estremo limite umano la vita del nostro caro e degno signore e padre, come noi preghiamo che voglia fare, allora diverrò io duca di Artois e di Fiandra. È un territorio dovizioso; il grano ondeggia sui campi ubertosi, più di diecimila pecore ricche di lana, da cui si ricaveranno dei drappi, brucano sui colli; laggiù, verso il mare, il lino cresce con tanta abbondanza che i contadini, come sento, per la gioia si mettono a ballare goffamente nelle taverne. Il paese è pieno di città preziose, come la tua mano di anelli: Ypern l’allegra, Gand, Loewen, Anversa che sovrabbonda di mercanzie, Bruggia-la-vive, separata dal mare aperto, protetta dal profondo porto dove navi stracariche di tesori approdano e salpano senza posa. I cittadini vanno in giro con robe di velluto e con pellicce, ma non hanno imparato a saltar liberamente sul cavallo né a mirare con la lancia sui quattro chiodi dello scudo né sanno combattere un buhurd, perciò hanno bisogno di un duca che li protegga, e quello son io. Ma te, fiore di tutte le donzelle, te, l’unica che a me si addice, te voglio condur per mano come duchessa-sorella laggiù in mezzo a loro, che per salutarti lanceranno in aria i berretti.»

E la baciò.

«Mi piace di più» disse ella «quando mi baci tu che non quando il nostro caro e degno signore mi graffia il collo e le guance con i suoi mustacchi color ruggine. Eppure come dovremmo mostrarci lieti se egli venisse ora da noi, cosa che può succedere ogni momento!»

Spesso infatti quando così sedevano variamente ragionando veniva da loro il duca Grimaldo, non per unirsi a loro ma piuttosto per scacciar via con rudi parole Wiligis e restar solo con la fanciulla.

«Fils du duc Grimald» diceva «vagheggino, ti trovo dunque presso questa bella fanciulla, tua sorella? Che tu ti curi li lei è lodevole, e io lodo che tu del tuo meglio ti adopri per provvedere a lei, e la aiuti e la intrattieni per quel che tu puoi, sbarbatello. Ma finché io vivo, in fede mia, sono io prima di tutti il suo protettore e sono sempre uomo abbastanza per difenderla. E se tu ti lusinghi che una così leggiadra creatura possa appartenere più caramente al fratello che al suo robusto padre, puoi attenderti un paio di ceffoni dalla mia mano. Allez, via di qui. Va’ a tirare al bersaglio insieme con mastro Patafrid. Il duca vuol conversare un poco con la sua figlioetta.»

E allora egli le si sedeva vicino nel vano della finestra e la corteggiava, il vecchio cavaliere, come un monaco può solo a fatica immaginarsi.

«Beau corps è il tuo» diceva lui «e quel che i francesi chiamano florie, il fiorente splendore che è nella tua persona, tu lo hai accresciuto negli ultimi tempi in modo graziosissimo. Hélas, propizio è il tempo alla giovinezza: esso ti fa fiorire ogni giorno più dolcemente, ma noi vecchi ci rende sempre più brutti, ci porta via i capelli dalla testa e cenere sparge sulla nostra barba. Sì, sì, la vecchiaia deve vergognarsi davanti alla gioventù, perché è ripugnante. Ma, pourtant, dignità vale bellezza e tu, carissima, non puoi dimenticare che Grimaldo è tuo padre, a cui devi tenero affetto e molta gratitudine, perché egli ti ha messo al mondo, egli che ha così presto perduto la sua sposa diletta. Quanto a te, dobbiamo vedere che presto tu ti scelga uno sposo, che già molti dolci indizi parlano per la tua maturità. Io penso solo al tuo bene. Ma, in verità, per te non mi contenterò del primo venuto. Non solo egli deve piacere a te, ma sono io che ti devo concedere a lui, e, in fede mia, io non ti concedo facilmente a nessuno, io vecchio cavaliere!»

Così press’a poco messer Grimaldo, quando sedeva con lei; io rendo le sue parole, come posso immaginarmele. Nell’anno seguente, quando i gemelli ebbero sedici anni, venne per Wiligis la festa in cui fu armato cavaliere. Come volete che io m’intenda di tali usanze! Ma so che nella lingua del mondo ciò significa che il junker può cingere spada di cavaliere. Fu il duca Grimaldo a compiere questa cerimonia. Egli creò il figlio cavaliere tra evviva e acclamazioni, dopo una messa solenne in San Vaast, nel castello di Arras, in presenza di molti parenti e vassalli. Poi, con i suoi due figli, Wiligis alla sua destra, Sibilla alla sua sinistra, scese giù per la rampa d’onore dell’alto edificio, davanti agli occhi della folla plaudente. E il nuovo cavaliere, abituato a portare al fianco solo il corto coltello da caccia, dovette certamente badare affinché la spada troppo grande pendente dalla cintura non gli capitasse fra le gambe. Ma a tutt’e due i giovani venne lo stesso pensiero: quanto sarebbe più bello scendere la scala insieme, mano nella mano, senza che il padre stesse lì in mezzo a loro. Ma poi che Wiligis fu creato cavaliere, anche Sibilla divenne agli occhi di tutti maggiorenne e in età da marito. Si moltiplicarono allora le domande della sua mano da parte di fieri principi della cristianità che potevano bene osare di presentarsi. In parte scrivevano, in parte mandavano messi a Belrapeire, e in parte venivano di persona. Il vecchio re di Anschuowe portò suo figlio Sciafillor, che in verità era uno sciocco. Il conte Sciolarss di Ipotente, il duca dei Guasconi Obilot, Plihopliheri, principe di Valois, come pure i signori di Henegau e Haspengau, tutti vennero e si fecero belli con vesti orlate di zibellino e con ermellini e con eletto séguito e con ornati discorsi che in parte lessero da un foglio. Ma messer Grimaldo rifiutò tutti. Non concesse Sibilla a nessuno, anzi poté appena nascondere l’odio rabbioso che nutriva per tutti i pretendenti e tutti, per nobili che fossero, li lasciò ritornare nei loro reami con una sola paroletta: no. E ciò fece molto cattivo sangue nelle corti della cristianità tutt’intorno.

Ma il giovane Wiligis ebbe in quel tempo un orribile sogno, da cui si svegliò bagnato di sudore in tutto il corpo. Sognò che suo padre si librava in aria sopra di lui tenendo le gambe sollevate indietro e la faccia aveva di color rosso rame, rigonfia d’ira, e i mustacchi arruffati, e lo minacciava senza far motto con i due pugni, come se volesse senza por tempo in mezzo saltargli alla gola. Questo sogno era ancora più spaventoso di quanto non sembri a parole, e dalla paura di risognarlo il giovane lo sognò veramente una seconda volta e subito, la notte appresso, e in maniera ancor più terribile.