Un amore rinnovato

Terzo premio del concorso letterario “La serpe d’Oro” Associazione Medici Scrittori Italiani Hotel La Meridienne. Palestrina (Roma) 20 Maggio 2000

Penso a lei, signora senza volto, madre di quel ragazzo schiantatosi col motorino in via R., una maledetta strada tortuosa e stretta come un budello che si inerpica su per la montagna.
Sono le venti, devo finire il turno, sono stanco e già pregusto una serata all’insegna del riposo.
Invece no, il cellulare suona…
E basta con questi suoni. La sirena, la radio, i cicalini… ci si deve mettere pure il telefono? Pronto…
Dalla centrale operativa mi chiedono se posso dirigermi in via R. in codice rosso, me lo implorano a momenti. Il collega non è ancora arrivato e c’è assolutamente bisogno di un medico.
E dai che faccio tardi anche per stasera. Ma cosa ci posso fare, codice rosso vuol dire che è grave.
Implacabile la sirena incomincia ad echeggiare per le strade cittadine.
Impazzirò prima o poi con tutti questi suoni acuti che preludono al dramma di una vita interrotta. Devo di nuovo raccogliere un ragazzo dalla strada, sta diventando un’abitudine e se poi non c’è niente da fare?
La sirena mi urla fin dentro le viscere. Chiudi gli occhi, rilassati, respira, tanto tra un’ora hai finito tutto e ti puoi dimenticare dei rumori, dei drammi accumulati anche per questa giornata.
Lei, cara signora senza volto, è madre di quel ragazzo che giace a terra, a pancia in giù. Un rigagnolo di sangue sulla strada, il motorino deformato poco più in là.
Si muove, mormora qualcosa, è vivo almeno, ma è grave: lo si capisce dai movimenti convulsi, afinalistici. Il braccio è deformato.
Dio mio quanta gente! Che cosa vuole, no, non lasciarti distrarre. Pensa a questo ragazzo sulla strada.
Lo giriamo, tenendo immobile la testa e la colonna vertebrale. Un’altra sirena mi trafigge l’anima: è la polizia. Ho davanti il corpo di un ragazzo che è convulsivante, respira e gli batte il cuore. L’ABC l’ho determinato in meno di un secondo. Agocannula marrone, la più grossa raccomandata dal protocollo ATLS*, quello degli americani che non sbagliano mai e che mi hanno insegnato fino alla nausea. Mi guardo intorno e mi rivolgo ad un poliziotto.
Fai luce sul braccio. Buco una bella vena con precisione ed eleganza. Retraggo il mandrino e infilo la cannula. Il sangue esce con un fiotto. Sangue in cui c’è vita, che scorre, che sporca i guanti e che cola sull’asfalto.
Cara madre, con quel gesto mi sono impadronito del corpo di suo figlio.
Credo di possedere un potere incontrastato su di lui nel difenderlo dalla morte che è palpabile, che mi respira sulla nuca e mi raggela la schiena.
Infondo Ringer Lattato, non è sangue, ma per il momento può sostenere il circolo. Ordino in modo perentorio un altro “marrone”.
Nessuno può disobbedirmi in questo momento, dobbiamo lottare tutti contro la morte che è insidiosa, che sale dalle tenebre, dall’asfalto.
Non posso sentirmi abbandonato in questo momento. Lo stesso gesto lo ripeto con l’altro braccio. Ancora sangue, c’è buona pressione per il momento.
Mi rimane adesso di valutare il problema neurologico. Grave trauma cranico, le pupille su fondo marrone, sono disuguali.
Caspita, che botta devi aver preso!
Bisogna intubarlo al più presto. Si muove sempre in modo più convulso. I volontari non riescono più a tenerlo fermo.
Somministro 15 mg. di Ipnovel e in men che si dica il corpo diventa immobile.
C’è sconcerto generale, un murmure si alza dalla folla. E’ difficile credere che non sia morto. Guardo il poliziotto che a sua volta mi scruta con sgomento anche se si mostra impassibile. Ha un lieve tremito alla mano che sorregge le fleboclisi, scuotendo i deflussori di plastica. Dovrei giustificare le mie azioni, ma come posso?, non ho tempo e non mi sembra il caso di dimostrare niente. La mia lotta contro la morte è personale: vuole essere sedotta e mi chiede di piegarmi. Bisogna pur concederle almeno una piccola soddisfazione, anche se il balletto è pericoloso. La beffarda ammaliatrice è viziata, è capricciosa. Dobbiamo giocarci tutto. Mi potrebbe portare via il ragazzo in un attimo vanificando le conoscenze apprese in lunghi anni
di studio. Le concedo per il momento il sonno per poterla sfidare con più tranquillità. Un punto a suo favore, un passo più vicino al baratro. Non devo fidarmi nemmeno di un secondo di questa tregua.
Dorme: per il ragazzo incomincia un lungo viaggio in un tunnel che lo porterà alla vita o alla morte. Se aprirà gli occhi avrà vinto, altrimenti avrà perso per sempre. Per ora dorme con i suoi ricordi e le esperienze di giovane adolescente.
Suo figlio si trova ad un bivio. Signora, lei che l’ha messo al mondo, potrebbe perderlo e si troverebbe costretta ad accettare la sua mancanza da un momento all’altro. Uno strazio per lei che l’ha generato e concepito.
E io mi trovo in mezzo tra lei e suo figlio, come il mediatore in un affare immobiliare di compravendita. Quanto devo barattare con la morte, quanto di mio devo concedere, quali armi devo affilare?
Lei ha l’amore per pagare il riscatto al destino perché suo figlio le venga restituito, perché possa ancora stare con lei. Ma io, sì, io, che cosa posso dare?
Devo bloccargli il respiro, altra condizione della morte, ma è necessaria.
Un passo in più sul baratro dell’ignoto. Il gioco si fa pericoloso.
Questa morte non mi concede tregua, mi avviluppa nel suo manto nero. Sento la gravità della situazione attorno al mio corpo. E’ la sua mano che si appoggia sulle mie spalle, bastarda, con falsità nella speranza che accetti la sua supremazia. No, alzo la testa, scrollandomi di dosso questa incipiente paura. Osservo controluce l’ago nel flacone di curaro. L’aspiro in una siringa. Un brivido percorre il corpo del ragazzo ma anche lungo la mia schiena. Il respiro si blocca: lo ventilo con le mie sole mani.
Possiedo la sua vita, completamente. Il tutto dipende dal solo movimento delle mie dita. Non devo assolutamente perdere. La posta in gioco è alta, si tratta della vita di un ragazzo.
Madre, è la vita di suo figlio quella che ho tra le mani. Io e lui, legati indissolubilmente. Non c’è nessun altro, anche se sono circondato da una folla di curiosi che fa il tifo all’unisono per me e per la sorte di suo figlio. Come vorrei sentirmi meno solo in questo momento. Perché sentirsi padrone della vita di suo figlio? Che cosa c’entro io? Perché il destino ha incrociato le nostre storie? Io che potevo essere con gli amici a mangiare la pizza sul lungolago! Avevo anche finito il turno. Perché sporcarmi le mani, perché soffrire e accettare a denti stretti il compromesso della morte?
E’ per il suo amore, madre. L’amore per suo figlio. E’ la sola ragione che mi tiene a stretto contatto con lui. Mi sento investito da questa calda sensazione di abbraccio materno. Ed è una sensazione inenarrabile, l’amore che dà vita, che spazza ogni timore e che si erge a muraglia contro ogni avversità. Chi se ne frega di tutto il resto!
Ho deciso io di mettermi in mezzo, di accettare questa scelta di vita, di fare da mediatore e di certo non per sentirmi eroe, ma per preservare per quanto mi è concesso, l’essenza di un’esistenza umana. Col tempo mi dicevo che mi sarei abituato ai drammi dell’uomo e in parte è vero, ma quando c’è di mezzo l’amore, lo stupore e la meraviglia e magari lo sconforto di una sconfitta, mi coinvolgono lasciandomi indifeso davanti al mistero della vita.
Laringoscopio, aspiratore e tubo.
Ecco, ti caccio un pezzo di plastica in gola, perdonami, ma è necessaria questa violenza.
Devo essere forte io e giocare duro, non posso lasciare spazio alla morte e alla commozione della solitudine. Devo essere ingratamente insensibile e pensare che il ragazzo è solo un ammasso di cellule che per il momento metabolizzano ad un livello minimo. I polmoni si espandono bene.
Il ragazzo vomita. Appena in tempo perché il cibo non venga inalato in trachea. Non ho schifo e penso a lei, all’impegno e alla cura impiegati a preparare la cena in questa sera. La penso intenta a preparare il cibo in una cucina sobria, spaziosa, allegra. La vedo lei alla sera, -ormai da quanti anni? una ventina?-, con la famiglia riunita davanti ad un desco, a desinare.
Lei e suo figlio. Vi vedo a discutere, ad affrontarvi con i secolari problemi generazionali, a disegnare giorno dopo giorno, i vostri confini di due identità che si stanno separando. Ogni sera a ridere, a piangere, a guardare la televisione, a reclamare le vostre esigenze e a disegnare i propri confini.
Accendo il monitor mentre applico gli elettrodi sul torace e sull’addome.
Il suono del suo cuore si leva sulla commozione dei presenti. Almeno ora tutti sanno che è vivo e che quel rumore elettronico, cadenzato, ritmico, testimonia in modo inequivocabile che il ragazzo è vivo.
Suo figlio, cara madre, è vivo. Lo sente…? Il “bip” sulla traccia liquida verde del monitor assicura che il cuore batte, un cuore al quale lei ha dato l’imput iniziale. Ne deve essere orgogliosa e sentirsi emozionata.
Tutti sentono questo suono dolcissimo migliore di una qualsiasi altra musica.
E’ l’amore quel suono, l’amore di un atto generoso e concreto.
Lo caricano sulla barella con tutta una serie di appendici. Quanti fili e tubicini lo tengono in vita e lo ancorano alla realtà quasi che la morte debba da un momento all’altro portarlo via! Li conto. Tre per le infusioni, uno in trachea, tre fili per il monitoraggio cardiaco, un sondino nasogastrico, un sensore per la saturazione di ossigeno e il tubo per il bracciale della pressione. La morte non può strapparlo tanto facilmente ancorato com’è alla realtà.
Madre deve difendere suo figlio con tutta se stessa, con la dignità di donna ferita che rischia di perdere il proprio figlio.
E inizia così il viaggio, la lunga staffetta che lo porterà alla vita. Si muove la polizia che decide di aprirci la strada correndo all’impazzata sulla vettura azzurra con tanto di sirene e lampeggianti. Ci siamo noi dietro.
Sono scosso con i visceri contratti, non ho più fame e penso alla serata rovinata, agli amici che ormai saranno già a mangiare. La sensazione di disagio è a fior di pelle. Lo sconforto si infiltra, la tristezza è in agguato, mi lascio solo consolare dal suono digitale amplificato del cuore mentre comprimo il pallone di ambu per dare ossigeno. Le mie mani trattengono una vita. Guardo il ragazzo giovanissimo, ormai così indifeso sotto il telo verde e le luci accecanti di due faretti del soffitto. I capelli a spazzola. Provo a passare una mano in segno di carezza. Ho un tuffo al cuore, le lacrime stanno per affiorare.
No, non devi proprio lasciarti andare ora, sai che è vivo, hai fatto di tutto, adesso lo consegni in ospedale e sei libero.
Ma la ragione non mi da conforto. Mi sento in balia di sentimenti contrastanti tra sirene che urlano a squarciagola.
Penso a lei cara madre, magari ancora ignara della sorte di suo figlio che sta lottando in un vicolo cieco contro la morte. Sono sicuro che lui ce la farà ad aprire gli occhi anche se non so quando. Madre, ciò che voglio dirle è che quel giorno in cui potrà abbracciarlo, si renderà conto che sarà come se lo generasse di nuovo e sarà un amore rinnovato, più vero e genuino e non offuscato dalla monotonia dei giorni. Il suo bene prezioso sarà di nuovo accanto a lei e lei capirà quanto importante sia stata questa vita che ha concepito. La sua responsabilità non è finita e sento che vivrà con suo figlio i prossimi giorni con più consapevolezza, con occhi diversi.
Si metterà in disparte in una prospettiva più discreta. Suo figlio è un bene prezioso, inalienabile, ma al tempo stesso un’identità completa e matura.
Io sono qui, ormai in ospedale. Ho dato le consegne ai colleghi, affidando il ragazzo ad altre mani, ad altre insicurezze e paure, ma soprattutto anche ad altre certezze: l’amore è ciò che potrebbe farlo vivere di nuovo. Lui è su un lettino, ormai completamente nudo, lavato dal sangue e coperto da un lenzuolo bianchissimo con qualche tubo e molti altri suoni in più. Redigo il referto completandolo con delle crocette nelle caselle vuote. La mano sudata, impregnata di talco, mi trema. Come può un foglio accogliere tutti i pensieri provati? Vorrei non segnare alcuna crocetta! Mi sembra un affronto. Io ho lottato contro la morte con la mia vita e una manciata di caselle vuote non mi consolano. Che cosa potrà percepire chi leggerà il foglio? Proprio niente. Mi sento vuoto, chi vorrebbe sentire le risa spensierate degli amici e sentire la leggera brezza che spira dalla diga in mezzo al lago?
Il ragazzo è immobile, nel suo letto. Lo osservo da lontano ormai da dietro la porta della sala del pronto soccorso. Prima di richiuderla, lo guardo con tutti i tubi e fili e le svariate luci dei macchinari.
Dai che ce la fai, resisti. Ti auguro soltanto ciò che il tuo cuore desidera.
Anche a lei, madre, già, potrei essere suo figlio, auguro che tutto l’amore riversato fino adesso non sminuisca mai e che sia sempre nitido, vero e ugualmente intenso per i prossimi giorni futuri. L’abbraccio con calore.
* Advanced Trauma Life Support (Trattamento Avanzato per il Trauma)