Il sole è stato moooolto timido oggi. In pratica si è fatto vedere per cinque secondi e poi basta. Dovevo saperlo guardando fuori. Probabilmente è la città di Klaksvik, particolarmente brutta e malinconica che porta sfortuna. Tra l’altro l’albergo era adiacente all’ospedale cittadino. Mi sembrava infatti che fosse la continuazione di un reparto del nosocomio.

Della cena di ieri, ho già scritto e non voglio ripetermi. Dico solo che ho speso 220 corone, quasi 30 euro, per un hamburger, una cheese cake e una diet coke. D’altronde non c’era molta altra scelta.

Stamane me la sono presa proprio con comodo, credendo di fare pochi chilometri, invece, penso di averne fatti di più degli altri tre giorni. Mi sono portato a nord est, fino all’ultima isola, Vidoy, che poteva essere visitata con l’auto.

Tempo incerto, quattro tunnel da panico -bui e larghi non più di tre metri- (se incrociavi un’auto dovevi sperare di trovare la rientranza in galleria), pecore suicide. Ma alla fine sono arrivato a Viðareiði: dovevo scalare la montagna il cui nome è Villingardalsfjall. Non sono arrivato alla fine perché quasi in cima mi sono trovato dentro le nuvole per cui non si vedeva niente e visto che da quelle parti c’e la scogliera più alta delle Faroe e dell’Atlantico -più di settecento metri- era meglio non procedere oltre.

La piogerellina mi ha accompagnato per tutta la discesa, intanto mi maledicevo per aver scelto le Faroe. Ma nonostante tutto lo spettacolo era molto bello e giustificavo la mia scelta. Ho fatto un giretto per il paese spettrale fino alla chiesa. La messa era già finita e non vi era anima viva.

Torno indietro, ormai di primo pomeriggio, facendo ritorno verso Klaksvik ma non mi sono fermato. E così dopo il tunnel sottomarino sono arrivato nell’isola di Stremoy, la cui forma è piuttosto sofferta, tagliata com’è da innumerevoli fiordi. Diciamo che è un po’ sbrandellata. Ma il nucleo centrale, un altopiano montagnoso, conduce verso tutti i fiordi. Ho scelto la prima strada a nord, quella chiamata Oyndarfjarðarleið, il cui cartello era lungo almeno una decina di metri. Sono arrivato al mare passando da un paesino minuscolo ma pieno di fascino. Il fiordo era bellissimo. Di fronte avevo la sagoma imponente dell’isola di Kansoy. Mi perdo indugiando tra le casettine minuscole, ordinate e colorate. Faccio una sosta mangereccia di biscottini al cioccolato.

Poi mi dirigo davvero verso l’albergo, percorrendo però un altro fiordino che si diramava dal punto centrale dell’isola. Ho avuto un incontro ravvicinato con una pecora la quale ha deciso bene di attraversa la strada proprio mentre sopraggiungeva la mia Citroen c4 nera fiammante. Poi chi gliel’avrebbe detto al renter…

Comunque era tardi e mi dovevo muovere per arrivare all’albergo, situato in un altro fiordo, accanto proprio a quello in cui mi trovavo. Per fortuna che non sono dovuto tornare indietro nel punto centrale dell’isola. L’ultimo tragitto era proprio spettacolare. La strada si inerpicava su fino al limite della montagna. Mi sembrava di essere a Livigno se non fosse che in basso c’era il mare.

Arrivato alla Guest House, la migliore di tutte le altre sistemazioni, ho avuto un mancamento nel sapere che la camera si trovava su in alto e che per arrivarci bisognava scarpinare e portarsi dietro la valigia. Altre imprecazioni ma ne sono valse la pensa dal momento che la stanza era molto ampia e che la vista spaziava su tutto il paese e le montagne circostanti.

Sono stato costretto a mangiare in albergo perché non ce ne sono altri per il paese. Peccato che alle 19 servissero la cena. Peccato così presto ma non potevo protestare. O mangiavo lì oppure potevo morire di fame E così dopo un brevissimo giro per tra le casette di legno di Gjogv, mi sono catapultato al ristorante prima di non trovare nulla. Che cosa abbia mangiato non so, però era tutto buono e profumato. Altro che caffetteria di ieri! Il dolce però, devo dire, che era modesto. C’erano le banane. Uffa. Speravo in un tiramisù in una chantilly, invece no…