A mia madre morta, finalmente

Finalmente sei morta.

Non sono felice perché ogni morte porta sempre sgomento dentro di me… ma aspettavo da sempre la tua dipartita.

Adesso che te ne sei andata via, sono libero da un legame che mi pesava. Non sono venuto all’ospedale, non verrò neanche al tuo funerale. E lo dico a scanso di equivoci: non volevo più vederti, non mi sentivo di far parte di te.

Dall’adolescenza, da quando ti ho conosciuto in modo consapevole, non ho potuto fare altro che constatare quanto ti assomigliassi, quanti geni avessi preso da te. Ogni volta ti guardavo negli occhi, mi vedevo riflesso. Non riuscivo a sopportarlo perché con te non volevo avere più niente a che fare.

Era triste pensare che tu mi avessi generato con inettitudine chissà dove, chissà perché. A casa, manco in un ospedale; probabilmente ho sofferto pure di anossia cerebrale visto che non sono tanto intelligente.

Ho il tuo stesso sguardo che non mi piaceva, gli occhi piccoli, rotondi.

No, mi sono rifiutato di appartenerti ancora. Ti ho lasciato morire in pace, senza di me benché avessi espresso il desiderio di rivedermi prima che il tuo essere ti lasciasse solamente con un corpo eroso dal cancro e dall’ipertensione. Non so di che cosa tu sia morta di preciso, non lo voglio sapere.

Mio fratello mi ha chiamato, per dovere, così mi disse.

Dovere di cosa? Sicuramente non per una questione di legge. Mai avuto neanche un legame burocratico.

Domani a Valganna, io non ci sarò neanche mi fosse spianata la strada e mi ci portassero sulla sedia gestatoria.

No.

Tutto qui, semplice.

Sono libero finalmente dal dolore che mi hai procurato, dalle tue follie per le quali ultimamente piangevi amaro. Perché, nonostante tutto, la mia vita era subordinata a te e questo proprio non lo tolleravo. Le tue incapacità le dovevo assolutamente pagare io, perché mai…?, mi chiedevo sempre nei momenti di assoluto sconforto.

Anche con uno sforzo di orgoglio non riuscivo a rialzarmi dritto, incombevano su di me tutti i tuoi geni di donna del Sud, incapace di vivere e di mantenere la progenie che sfornavi come il pane.

Ricordo ancora il dolore fisico e morale; ho la vaga percezione, per fortuna, di una folle corsa al Circolo con qualche osso rotto; mi avevi dato del ladro quando la vicina, o chi fosse, mi aveva regalato una scatola di cioccolatini; non scorderò mai la testa mozzata di un pollo da cui usciva del sangue violaceo e ragrumato.

Sei morta finalmente senza di me. Non riuscivo a concederti la mia presenza. No, non sono insensibile, non voglio passare per il bastardo che non si abbassa ad un gesto di pietà. Ma sfido chiunque a mettersi nei miei panni e a provare le tormentate catene di un rapporto figliare che era marcio.

Magari, sì, ti porterò un mazzo di fiori sulla tua tomba, ma non ora. Lascerò passare il tempo necessario affinché il tuo corpo si decomponga. Non vorrei che qualche rimasuglio di gene potesse legarmi ancora a te.

Li ho scritti questi pensieri perché nessuno mi accusi di codardia o altro. Queste parole pubbliche saranno in eterno.

Ave at que vale


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4 Commenti

  1. Caro Anonimo, libero di esprimere commenti negativi. Mi sarebbe piaciuto che lei si firmasse dimostrando di avere la necessaria maturità e consapevolezza nell’esprimere giudizi di un certo tono. Cordialità-

  2. A 30 anni mi porto dietro il male di mia madre, che continua a farmi ogni volta che la vedo, che riesce a farmi anche solo al telefono. Ho capito che per me non è una madre da ben 15 anni. .. non ho il coraggio di affrontarla per paura che il suo cervello malato possa commettere idiozie nei confronti di chi voglio bene. Aspetto che vada via per sentirmi libera, ma sento che mi terrà in pugno per ancora molto tempo. E io continuerò a proteggere i miei figli e mi porterò dentro il dolore che mi da ogni giorno. Peccato aver letto solo ora il tuo post

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