A Malpensa, dopo un tragitto scorrevole e senza traffico, ho trovato il mondo intero. Mi sono venute immediatamente le scalmane. Dove doveva andare tutta sta gente? Varadero? Samos? Dubai?

Uff! Ho raggiunto il bancone del drop off coi denti serrati, schiumando, dopo aver falcidiato una dozzina di famiglie rincoglionite da Mulino Bianco. Avrei dato ben volentieri dei calci ben assestati affinché qualche bambino potesse finire sul rullo delle valigie e sparire per incanto.

Ho fatto colazione: 3 euri e 40 per una treccia di crema e un cappuccino. Stica! Sartori è sicuramente molto più economico e infinitamente meglio.

Al gate una babbiona italiana voleva passarmi davanti perché era stato annunciato l’imbarco delle persone che avevano posto dalla fila 20 alla 32 (o qualcosa del genere). Appena a tre micron in avanti le dico con candore: ma dove crede di andare?

Ho il posto alla fila 31.

Bene, io alla 30. Cosa pensa? Che la gente è qui a fare la fila perché non capisce niente? Vede? Lei è la solita italiana che se ne strafotte delle regole. L’avrei pure fatta inciampare ma, alla fine, sono stato magnanime. L’ho graziata, la povera crista.

Il volo è stato perfetto, su un interminabile lenzuolo bianco di nubi soffici. Non ho visto niente, forse qualcosa della Danimarca ma non ci giurerei.

L’aeroporto di Oslo si è ingrandito e di parecchio. Me lo ricordavo il vecchio parallelepipedo di legno e vetro: due passi era già finito. Adesso hanno messo una proboscide in mezzo, il terminal D, osceno, a dire il vero.

Il secondo volo, ti pareva, era di un’ora in ritardo perché l’equipaggio non si sapeva bene dove fosse, per cui non si sapeva nemmeno a che ora partisse perché non dipendeva dal traffico aereo. Ma il capitano e gli altri della ciurma sono arrivati poco dopo. Per fortuna che durante l’attesa era già stato sistemato l’aereo.

Anche questo volo non mi ha offerto scorci importanti. Pazienza.

Ho ritirato l’auto. Una cosa ibrida, senza chiave, spaziale, che si accendeva a comando e a seconda dei movimenti. Ho impiegato una buona mezz’oretta per capire come accenderla perché non c’era il buco dove inserire la chiave, e per regolare il sedile. Non lo dico per ridere ma ero abbastanza disperato.

E poi ho preso il traghetto delle 18. A dire il vero volevo fare il brillantone, prendere quello delle tre, nel frattempo scalare chissà quale montagna, dormire in tenda, anche se non ce l’avevo con me, nonostante il sacco a pelo.

Ma alla fine, visto che ero già accodato, e visto che mi hanno fatto subito il biglietto, sono partito. Meglio così almeno ho avuto il tempo di trovare un albergo una volta sbarcato alle Lofoten.

Mi devo convincere che non ho più vent’anni. Anche la cassiera del cinema lo ha certificato. E ora sono tra il piumino soffice di una cabina con una vista imperdibile.