Tra i Dam e il vento contro

Caro A, vederti sorridente e soddisfato mi riempie di gioia.

Non pensavo che mai avremmo potuto passare un momento assieme, tutto per noi. Ti sentivo vicino e affabile. Percepivo la benevolenza e la gratitudine. Ti ho ammirato a lungo mentre dormivi, con il volto rilassato e piacevolmente serafico. Non sai quanti sorrisi sulle tue labbra, quale gioiosa espressione mi concedevi.

Ho fatto di tutto perché potessi passare quest’ultimo nel migliore dei modi. Ti ho coccolato, ti ho tenuto stretto al mio cuore, non ho voluto farti mancare nulla. E questo lo hai apprezzato.

Mi sono arrabbiato molto che non ci fosse la camera pronta con due letti, ma non volevo aspettare tre quarti d’ora in albergo, tra l’altro condizione inacettabile per il servizio richiesto e pagato. E il mio show in inglese quasi perfetto te lo ha dimostrato.

Fa niente, ho potuto starti vicino ancor di più e nonostante tutto era bellissimo averti a pochi centimetri. Sono stato discreto, mi sono voltato dall’altra parte e sono rimasto per tutta la notte così. Non volevo rovinare l’atmosfera. Mi bastava la tua vicinanza, il respiro affaticato di chi dorme pesantemente. Ti ho guardato a lungo non visto. Ho ammirato il volto, l’espressione gioiosa come quella di un bambino. Ho lasciato che ti prendessi tutto il piumone per te e ho aspettato il tuo risveglio.

Non ho voluto essere pesante anche se dalla gioia ti ho ripetuto diverse volte le mie piccole ssoddisfazioni.

La prima delle quali per il bellissimo tramonto che ci ha accolto alla Malpensa. Quante volte te l’ho detto, quante volte mi sono fermato per osservare la luce infuocata dietro le nostre spalle. Ero contento di volare, soprattutto con te. Sai che il volo è per me una grande fonte di gioia, un desiderio fanciullesco. E averti sull’aereo gomito a gomito, ecco… non potevo chiedere di meglio.

E siamo stati ad Amsterdam. Per te era una città assolutamente nuova, che si apriva lentamente, lasciandoti meravigliato. Ti sembrava di essere in Russia, sono state le prime parole, espresse appena usciti dalla stazione. Non ci avevo mai pensato. Ma l’aver esternato un concetto con così tanta semplicità, mi ha fatto tenerezza.

E poi mi hai seguito come un bambino segue la sua guida. Diligente, con vivacità, senza doverti venirti incontro. La tua autosufficenza mi tranquillizzava. Stavi bene e lo sentivo. E io davanti senza alcun timore di vederti perso o smarrito. Gioioso e ridanciano ti portavo nella piazza Dam che avevi visto parecchie volte nella web cam. Mi piaceva condivedere con te la meraviglia e la sensazione della prima volta. Peccato perché ormai quella piazza era un mio punto di riferimento dal lontano 1994.

Hai camminato senza stancarti, senza minimamente provare alcun cedimento fisico. Hai preso le patatine dal cartoccio e le hai assaporate, leccandoti le dita. Abbiamo sgomitato nella ressa del quartiere a luci rosse, lasciandoci trasportare dal flusso ininterrotto delle persone. Una marea pressata per benino lungo i canali. Ti divertiva quel gioco di accostarti alla vetrina e guardare i giovani pischelli che contrattavano con un misto di ingenuità le prestazioni con la signorina di turno. Le guardavi ammirato, giustamente che fosse così. Anzi esprimevi la tua forza di maschio, adulandole.

E ci siamo fermati in un pub. Per bere, per riposarci. Al bancone, come veri uomini. Almeno tu. E io a fare lo scemo, il clown per divertirti, per strapparti ancora una volta quel bel sorriso di cui non mi saziavo mai. E stavo anche attento a se stessi bene. Ti ho detto diverse volte di toglierti il dolce vita senza essere però pedante. Non volevo che provassi disagio anche per la più piccola sciocchezza. Davvero. Ti sei tolto la felpa. Almeno ti sentivi più a tuo agio. Abbiamo percorso il tragitto tra la Dam Square e la Neu Markt. Volevo essere li per festeggiare l’ultimo. Certamente la più caratteristica, più vivace. Sembrava tutta un campo di battaglia. I traccianti rossi, gli spari che illuminavano a giorno la piazza. Abbiamo festeggiato non proprio allo scoccare della mezzanotte perché non c’era alcun count down. Ma non importava. L’essenziale era condividere la fetta di torta, il vino e l’augurio per il 2012. Certo avrei voluto più intimità e guardarti mentre sorseggiavi il prosecco, ma andava bene così.

Con la fanta in mano, ho chiuso gli occhi e in un attimo ho espresso tutti i migliori desideri per l’anno che stava iniziando. Sapevo che eri dietro di me e che nessuna cosa mi avrebbe potuto divedere da te. E mi bastava questo. E così ci siamo incamminati lungo il campo di battaglia, pericolosamente esposti ai razzi, ai fuochi incrociati. Ma era bello, era divertente. Sentirsi al centro di un grande mondo, che condivideva lo stesso istante. Guardavamo le lanterne, poche invero, che volavano nell’oscurità, qualche volta rischiarata dal fumo infuocato.

Siamo ritornati indietro, lentamente, senza fretta, con assoluta calma, con piacere voluttuoso nell’attardarci in quelle stradine di case storte. Anzi ci siamo lasciati cullare dalla marea di gente, dalla ressa, dall’abbraccio caldo e viscerale della gente di Amsterdam e del mondo intero. Le donnine erano ancora lì ai loro posti. Gli uomi ancor più eccitati e più insistenti nelle proposte. Più brilli un po’ tutti, più accalorati. Ti sei concesso il secondo cartoccio di patatine. Io ho rinunciato. Stavo bene così. Non potevo chiedere di meglio. Vederti mangiare mi saziava anche me. Quando uno sta bene con se stesso è in pace con il mondo. E tu lo eri per davvero. Io arrivato a Dam Square, ho scalato il piedistallo del leone. In un gioco stupido e infantile. Ma volevo sul serio conquistare il mio piccolo mondo e dimostrare a tutti la mia felicità. E tu ti sei divertito un mondo. Sorridevi e ridevi. Ti guardavi attorno.

E poi, finalmente, la musica, ecco mancava proprio questa. Sì, non era un concerto vero e proprio ma soltanto l’intrattenimento di qualche sfattone, eppure quel suono, storpiato e graffiato dalla casse non proprio tarate al meglio, ha aggiunto quel piccolo ingrediente che rendeva perfetta una sera. E poi tutta quella gente variopinta. Era uno spasso ammirare le goffe movenze di chi non riusciva più a stare in equilibrio e si piegava su stesso.

Gandalf, come l’hai soprannominato, era lì a occhi chiusi, apparentemente in dormiveglia, ma seguiva la musica. La signora in rosso, brutta come la fame, si lanciava in esibizioni frenetiche. E la checca col cappello che ci lanciava sguardi di intesa e di complicità, quando di intesa e di complicità non ce ne era neanche mezza. Il folle a torso e addome nudi bombato da chissà quanti litri d’alcool. E in questo momento hai avuto l’unico momento di intimità con me, volendo condividere i tuoi pensieri. Mi hai parlato da dietro, appogiando le labbra sul mio collo. E mi hai detto qualcosa che non ho sentito, ero troppo preso da quell’istante di cui mi sentivo in imbarazzo, ma non tanto per me, ma per te. Sentivo il fiato caldo che usciva dalle tue labbra, il suono smorzato e il tuo contatto. Non ho lasciato trasparire nulla e mi sono allontanato poco dopo. Non avrei retto ancora molto senza abbracciarti. Così mi sono incamminato. Era tempo del redde rationem. Continuare nella notte oppure lasciare tutto e chiudere le tende. Un ritratto di Rembrandt, un giovane bello e aitante, con un calice di vino nella mano, ci invitava a continuare.

Tu non hai espresso alcun parere. Qualsiasi cosa andava bene. Ma io non volevo cadere nella notte. E la mia saggezza acquisita in lunghi anni di delusioni e marasmi mi ha consigliato per il bene di entrambi. Lentamente ci siamo incamminati fino alla stazione, indugiando ancora tra le vetrine e nei vicoli pieni di coffe shop, osservando i sexy shop con le loro meraviglie messe in primo piano. E in un attimo, il silenzio ovattato dell’albergo. Senza dubbio un bell’albergo e elegante. Non avrei mai permesso di stare in una bettola. E la notte si è chiusa così.

Bruscamente ma era giusto. La saggezza ci doveva far aprire gli occhi prima che la notte ce li facesse chiudere. Mi sono infilato nel letto, complice una pastiglia di tavor e via. Fino all’indomani. Le tentazioni sedate, sopite, i malumori in agguato resi inagibili. Doveva iniziare un altro giorno e un’altra occasione per noi due. Ed ero intenzionato a viverla fino in fondo quella piccola gioia che avevo nel cuore. Non potevo certo volere di più e così era per me un lusso. Mi riempiva di gioia il tuo sorriso, la tua riposata freschezza.

Ecco eri rinvigorito dal sonno in un letto che non avevi mai assaporato. Sapevo che sarebbe stato un toccasana e la mattina eri ancora più bello e più radioso con il giocattolino in mano, una bicicletta bianca come il candore e la tua innocenza. Avrei dato di tutto per fermare il tempo.

Quell’istante di piacevolezza, di benessere. Avrei mandato giù qualsiasi cosa per congelare il sorriso. Abbiamo iniziato a pedalare come se l’avessimo sempre fattto, inforcando la bicicletta buttandoci nel mezzo di stradine. E in poco abbiamo superato la stazione e ci siamo trovati davanti al mare, quello del Nord, il cupo e silenzioso mare, la vastità di cui non riesci a immaginare di altro colore se non grigio. Un immenso cartello ci augurava il 2012 e in un attimo ci siamo lasciati la città alle spalle.

Iniziavano i campi, i canali. La natura lentamente prendeva il sopravvento. Appena a una decina di chilometri la natura prepotentemente iniziava a stabilirsi. I cigni ci guardavano, gli aironi prendevano il volo mollemente e stanchi, le paperelle si tuffavano. Il cielo per un poì si è rasserenato per poi subito ridiventare lo stesso che ti aspetteresti nei paesi del Nord. Dopo i dieci chilometri senza averli sentiti, ci siamo fermati alla prima attività commericale libera e aperta. Un benzinaio nel quale abbiamo fatto colazione.

Ripeto, volevo che ti sentissi bene, che niente ti mancasse. Che sapessi apprezzare quanto un uomo possa donare all’altro per il suo bene. Lo so era una colazione ma l’aver condiviso la stessa brioches e due tazze fumanti di brodaglia calda, era una sensazione di intimità ancor più dello star vicino. Ero commosso profondamente.

Ti guardavo apertamente ora. Il volto rilassato, il piacere di essere lì, in un anonimo benzinaio al limitare del confine cittadino, con la macchina fotografica. Cosa voler di più da un uomo? Abbiamo ripreso il cammino, ancora in aperta campagna, con più canali, con più uccelli. Qualche mulino a vento, le fattorie ed era tutto così semplicemente ordinato, così essenziale proprio come i miei desideri per te. Ero felice fin dentro l’anima. La purezza dei miei sentimenti rasentavano la perfezione del paeseggio.

E a Volendam, meta finale del nostro tour, ci siamo seduti nel terrazino di un condominio prospiciente il porto e il mare. Ci siamo seduti su alcune sedie e guardando le punte degli alberi maestri delle barche ormeggiate, abbiamo ripreso il respiro che si regolarizzava. L’eternità, come due persone che non aspettavano altro, e si sono ritrovate ad osservare l’infinito. Non volevo altro. Nient’altro che il mare, il sole pallido e il tuo respiro. Ti guardavo, ti osservavo, i gabbiani a loro volta ci guardavno rimproverandoci per aver disturbato la loro quiete e perfezione, il loro piccolo spazio personale. Ma anche noi avevamo diritto al nostro infinito.E così via, placidamente nella cittadina addormentata, lontana e atavica, immersa ancora nel sonno e nel grigiume, così ancorata a se stessa prima che il mare del nord la spazzasse via.

Poche pedalate per conquistarla e vederla tutta, testimoni silenti alcuni gatti a caccia di paperelle, e le stesse paperelle rattrappite nel sogno atavico della città. Ovviamente tutto il grigiore ci avvolgeva e ci appiattiva contro le mattonelle amaranto del selciato, che scivolava lentamente e silenziosamente. Tra l’umido e il caldo fiato dei nostri respiri. Poche concessioni alla città quella commerciale e casereccia. La natura ci richiamava. Non era intenzione di fermarci a osservare le vetrine. E il respiro più ampio della distesa di mare racchiuso e protetto dalle esondazioni dai polder lungo i quali scivolavamo mollemente, era all’unisono. La stanchezza si faceva sentire. Più che altro per il vento contro. Speravo che procedesse tutto liscio ma la fatica contiunuava. Rimanevi sempre più indietro e io ti aspettavo volgendoti le spalle. Aspettare una persona contando i minuti e assaporando l’aria salmastra mi distendeva. Ero stanco ma ero anche così placidamente in pace con me stesso che l’aspettarti in quel torpore mentale era solo una gioia. Non mi voltavo quasi mai. Aspettavo che arrivassi, senza fastidio, accogliendo dentro di me la tua andatura e le tue necessità. Riposare per cinque minuti su una panchina poco prima di un ponte, tra cielo e terra, tra grigio e grigio, tra verde e verde della casetta linda e immacolata di fronte a noi, era l’idillio magari di un quadro di Van Ghogh. L’acqua scivolava nella schiuma, il ponte così minusculo e la casettina affacciata sulla insenatura e tu da parte, curioso e irrefrenabile nonostante la stanchezza. La gioia di condividere quella perfezione accurata e perfettibile, la quiete e il respiro del vento


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