Mi ero promesso di non usare il bagno della signora proprietaria della casa ma d’altronde come avrei potuto? Non avrei voluto appestare la Danimarca e poi dovevo assolutamente farmi la barba. Con riluttanza entro nel bagno. Sono inorridito. Ci sono tutte le sue cose, creme cremine, profumi, mascara. E non so cosa altro.

Dopo queste ore di terrore, esco finalmente nell’aria decisamente fresca, un bel sole, il canto degli uccellini. Ritorno di buon umore. Riparto verso est, tagliando in due questa isolettina ondulata. Prati, distese infinite di fiori gialli che contrastano con il cielo azzurrissimo. Non c’è anima viva. Arrivo alle scogliere, dopo un tragitto su un sentiero sterrato completamente immerso nel bosco.

Parcheggio. Una costruzione gigantesca di cemento armato, per fortuna bassissima, mi accoglie. Sembra una navicella spaziale. Non entro nemmeno, invece mi porto subito alle scogliere. Peccato che per arrivarci dovevi scendere miliardi di gradini e rampe di scale. 160 metri di dislivello, insomma come le nostre Alpi in piccolo e in discesa. Ero preoccupato per la salita ma lo spettacolo era davvero unico. Finalmente una scogliera degna di questo nome. Bianchissima, accecante. Come quelle di Dover, forse un po’ più piccole ma lo stesso imponente. Arrivo sulla spiaggia con i menischi distrutti. Mi siedo su un sasso sferico, credo di non volermi più alzare e desidero rimanere lì per l’eternità. Avrebbero dovuto portarmi con la forza. Capivo certa gente che chiama il 112 perché sfatta e sfinita. Mi sentivo annientato. Un’aringa spolpata. Guardavo in alto, in un punto indefinito, dove avevo iniziato il percorso. Dovevo fare ancora tutta questa salita. Dopo un’ora meditabonda sulle mie disgrazie, cerco di recuperare un po’ di energia e affronto le scale del ritorno. Sono già in affanno sulla prima rampa. Inizio a sudare come un ossesso. Sbuffo. Le carotidi sono gonfie. Dai, che vi liberate del Genovese. Alcuni potrebbero essere contenti.

Nonostante le mie più pessime previsioni, arrivo in alto. Sembra di essere in paradiso. Mi aspetto San Pietro con le chiavi… Eppure le ginocchia fanno meno male, le gambe tutto sommato hanno retto. Non sono morto. Evvai. Pago il parcheggio, 6 euro, ‘sti marcioni, dopo tutta questa fatica? Dovevate darli a me i soldi.

A mezzogiorno sono nella cittadina di Stege, la percorro in lungo e in largo. Tutto chiuso, non c’è in giro nessuno. Classica cittadina di pescatori affacciata sul baltico. Faccio finalmente colazione nel supermercato oltre il ponte. Il wienerbrød me lo divoro con una cioccolata calda. Apprezzo in particolar modo la marmellata del plauner. Si vede che sono particolarmente affamato. Sono affacciato sul mare e mi scaldo al sole. Riparto.

Mi accorgo che la portiera lato passeggero ha uno sbrego della madonna e la lamiera è rientrata. Ma come? Sono andato pianissimo, possibile che non me ne fossi accorto? Inizio a preoccuparmi anche se sono certo della mia innocenza. Visto che dovevo andare a nord, ho deciso di passare da Kastrup. Avrei perso quell’oretta nella deviazione ma dovevo assolutamente sapere. Arrivo al renter della Budget, incontro il Rasmus, che in quanto a intelligenza lo vedo poco dotato. Scazzato mi vuole rimandare nell’altro ufficio. Pure poca voglia di lavorare. Cretino di un Rasmus, alza il culo che l’auto è qua dietro, guarda e poi mi dici. Potrebbe essere qualcuno che ti è venuto addosso. Ma sei scemo, non mi credi? Chi doveva venirmi addosso? Un cervo? Sono stato solo nelle foreste. Poi guarda il contratto, con l’occhietto da triglia lessa, mi dice: “Non si preoccupi, è già tutto segnalato”. Ma dirmelo prima, che mi si sono chiuse le coronarie? In realtà, a pensarci bene, probabilmente me lo aveva anche detto, ma sul contratto, con le dita, aveva segnato un’ics sui danni e mi aveva detto di non preoccuparmi. E certo non mi preoccupo, ma se non mi spieghi che ci sono sbreghi e rientranze della carrozzeria… Rimbamba.

Esco dall’aeroporto a tutta birra, uscendo dal sedime aeroportuale a velocità folle. Mi sento ormai come se fossi a casa. Purtroppo mi blocco subito nel micidiale traffico delle tangenziali di Copenaghen. Sembra di essere a Milano. Mantengo la calma ed evito di mandare la gente a quel paese, anche perché dirglielo in danese, mi sembrava una cosa preoccupante. In realtà il traffico era solamente proprio nella porzione di autostrada che lambisce la periferia occidentale della capitale. Dopo 10 km, il traffico sostanzialmente era inesistente.

Dopo un’ora arrivo al Castello di Frederikborg. Ok, bello, anzi bellissimo. Cielo azzurrissimo, lo stridio delle oche e altri volatili non meglio identificati stordiscono con i loro acuti. Faccio un giro nel piazzale antistante. Le fontane spruzzano i getti in giro per il vento. Devi stare attento a non lavarti.

Mi limito soltanto a un giro attorno al fossato, evito come la peste la città. Anche perché la periferia mi sembrava abbastanza orrenda, con palazzoni degni di Quarto Oggiaro. Sono in sofferenza mentre attraverso le migliaia di saloni di automobili e bricocenter. Finalmente il verde, i prati, riesco a tirare un sospiro di sollievo. Arrivo in prossimità della costa settentrionale della Selandia. Il mare è illuminato dai raggi radenti del sole. Mi fermo in un supermercato per la cena e mi infilo nel bosco per cercare la stanza. Cinque chilometri nella boscaglia, mi affido a Google Street verso cui ho una fede cieca. Vedo una casa immersa tra il fogliame, sembra più un capanno. Google giura di essere arrivati. Non c’è nessuno. Mi sembra di vivere la storia di Cappuccetto Rosso. Mi guardo attorno alla ricerca del lupo. Metto il codice alla porta principale, si apre… Nonna sono io… No, quello è il proseguo della fiaba.

Lascio le valige e mi porto alla spiaggia. Voglio vedermi il tramonto, mangiare contemplando il sole. Ci arrivo in meno di cinque minuti. Soddisfatissimo, spiaggia di sabbia fine, lunghissima per chilometri, che si perde nell’indefinito. Mare poco mosso. Alcuni fanno il bagno. Tira un vento tagliente, che ti sferza le guance. Cumuli di sabbia si alzano. Inizio a tossire. Vado in auto a ripararmi come del resto tutte le persone sono lì. Tra un panino e l’altro e il ciupaciupa di una coppietta parcheggiata di lato, il sole cala insensibilmente. Ok, i colori non sono quelli dei Caraibi, ma il tramonto è bello è dignitoso.