Il mio racconto inviato a Parolario

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LA ROSA AVVIZZITA

Ecco la rosa camuna: ricordo le mie peregrinazioni per la Lombardia. Lungo i petali di sinistra, tra Como e Pavia. Sulla tangenziale e la 35.
Tra la terra degli Insubri e quella dei Longobardi.
La guardo, la rosa, disegnata con quel moto di orgoglio che rompe la simmetria del fiore. Uno slancio verso il futuro, una segreta convinzione avvitata su se stessa. La tua vita, la mia in questa terra frenetica.
La sofferenza di un’infanzia violata e il riposo tra i cortili secolari dell’Alma Ticinensis. La sosta sulle sponde di un lago per riprendere fiato, in un amplesso a notte fonda al riparo da sguardi indiscreti sotto una luna incredibilmente luminosa.
Correvo all’impazzata per non piangere. Ti cercavo e mi riposavo tra le tue braccia e il cuore che pulsava con regolarità.
Mille volte ho guardato la nostra terra da Malpensa quando la punta dell’aereo virava a destra. Mi meravigliavo nell’osservare il mondo, cercando di riconoscere la mia e la tua casa. Sotto quella curva intravedevo le montagne, la Spina verde che mi puntava dritta al fianco, i puntini allineati dei laghi, la macchia scura di Milano e di nuovo Malpensa.
Sono partito per dimenticare e allontanarmi da te, sempre ritornando con nuove speranze e delusioni.
Avevo consumato promesse illudendomi che il nostro futuro sarebbe stato nostro. Invece il futuro era solo tuo, e il mio…, bé, che importanza aveva?
Un amore insostenibile sbocciato tra i petali della rosa e sfiorito poco dopo, un anno, a migliaia di chilometri sul promontorio di Byron Bay con la disperazione e il magone nelle venti ore di volo dell’Alitalia durante il ritorno.
Mi avevi cercato tu, intercettandomi sulla strada tra Pavia e Como, tra la ragione e il cuore. Lo sguardo timido, i sorrisi seminascosti non erano serviti a nulla in un anno condiviso nello stesso posto di lavoro. Io intento nelle preoccupazioni della vita, rincorrendo l’ambizione. Ti eri messo di traverso affrontandomi a muso duro perché altrimenti avrei continuato sulla mia strada.
E mi sono fermato.
Siamo rimasti incantati a guardare la pianura dall’alto del Cornizzolo, una coperta di luci tremolanti. Poi, giù, via nella Brianza in una corsa frenetica, isterica, surreale, tra i semafori e lo smog.
Un ristorante e la stanchezza che si accumulava.
Da quel momento la frenesia si è tramutata in consapevolezza. Ho riconosciuto gli sguardi, i messaggi intimamente inviati in un anno intero.
Erano ormai finiti le parole e i giochi delle parti. Non dovevo più recitare, semplicemente dovevo mettermi a nudo e donare la mia anima. Eravamo noi, vicini, nei viali della Milano di un’estate ormai giunta al termine. Ti osservavo, sostenevo il tuo sguardo, giustificavo la mia vita.Era la tua persona che mi metteva a mio agio e lasciava che l’umiltà versasse lacrime che non sarebbero mai scese in altre situazioni, bloccate da un orgoglio tenace. Mi hai ascoltato assaporando tutta l’amarezza che intanto si liberava come un vapore impalpabile. La musica usciva dagli altoparlanti, incurante delle nostre sofferenze e permeava quello spazio angusto tra me e te. Tutto in quell’automobile trovava adeguata espressione, riempiva l’abitacolo e lasciava che il vuoto ci catturasse. C’erano il calore, il profumo imbrigliato nella trama di un maglione morbido, la calda entalpia di un amore che stava per sbocciare, l’armonia dell’universo che concorreva alla nostra felicità, la triste gioia del nostro incontro. C’era tutta Milano con le circonvallazioni, le strade larghe, i controviali e le ambulanze. Il nostro gioco è iniziato, dovevamo solamente tirare i dadi delle possibilità, danzare e ballare tutta la notte. Ecco il primo bacio e la paura di rovinare tutto prima che iniziasse. Mi sono avvicinato e ho appoggiato le labbra sulla tua guancia. Un bacio di calore, d’amore, un fremito: era il mio ed era il tuo. Era l’amore di una vita. Il bacio in un’intesa. La rivincita sui diseredati, sulle cieche viscere della terra, sull’oppresso, sul pianto inconsolabile di un bambino affamato, sulle puttane in attesa nei viali. La musica scandiva il silenzio. Il gioco, l’amore, la paura, l’insicurezza di anni passati nella più nera paura in un ritmo sempre più frenetico. Il cuore, quel cuore a tachicardie vertiginose, mi lasciava al limite del collasso.
Ti toccavo, entravo nel tuo mondo. Ti amavo, mi sentivo fragile. Le lacrime copiose scendevano offuscando tutto intorno, il sesso in tensione ma non eccitato. Tutto era in armonia in quel piccolo spazio, in quel respiro di città per l’occasione discreta.
Così è iniziato tutto.
Ti lasciavo quando mi impossessavo della Ticinum e da bravo tirocinante, col camice bianco, imparavo i segreti della vita nei recessi dell’uomo. A Como, al ritorno, stanco e affamato d’amore, invece, quelli dell’anima.
Nella terra di mezzo ti venivo a prendere per mano per non lasciarti più.
Eppure la felicità non era per noi neppure quando riuscivamo a scorgere nel cielo, a sud, lo Scorpione inseguito dal Sagittario, i nostri segni zodiacali. Dalle montagne si riuscivano a intravedere le due costellazioni partendo dal cuore pulsante di Antares ma non si vedeva la coda nascosta dalla foschia e dalle luci. Il marcio doveva ancora essere svelato, così le incomprensioni, l’insostenibile peso di un grande amore, le storture delle nostre vite.
In quelle corse frenetiche nell’ovest della Lombardia, tra i due petali e il centro della rosa camuna, comprendevamo che non avremmo avuto molto futuro, che lo Scorpione tende a pungere perché nel proprio istinto e il Sagittario lancia saette colpendo a morte il nemico.
Troppo distanti i nostri mondi! La statale dei Giovi non riusciva a tenerci uniti. Le liti e tutto il resto. La pazzia e le lacrime. Ineluttabili per chi aveva la sofferenza nel cuore, per chi non riusciva a sopportare il troppo amore. La Lombardia non poteva sostenerci, la rosa, rinchiusa in un quartiere di verde, era inaccessibile e isolata come il nostro amore. Noi, indifendibili, non avevamo sbocchi. Eravamo confinati in quella forma curvilinea, chiusi e impermeabili, dove non si distingue il principio e la fine, il nord dal sud.
Seguivano la disperazione e le suppliche, i compromessi e le accuse. Gli scatti di pazzia e i testacoda, in orari insospettabili, nella piazza dei cinque cerchi. Si consumava da solo l’amore come un fiammifero acceso che si spegne con rapidità incredibile. Solo l’aereo ci liberava distaccandosi da terra e superando i nostri limiti. Ritornavamo sempre però perché questa terra ci richiamava indietro. Non riuscivamo a recidere e a decidere per un futuro comune. Le anatomie dissimili crollavano sotto il peso di un amore troppo forte e dei nostri incubi. Como-Milano-Pavia in un rettilineo sempre più serrato. Tu ti allontanavi sempre di più perdendoti nella grande macchia della terra di mezzo, io ritornavo nei giardini del San Matteo.
Fino alla decisione finale. Le peregrinazioni dovevano finire. L’amore pure. Niente corse. Nessun’altra pazzia. Solo il sapore di un’illusione intensa, felice ed effimera. Un fiore avvizzito, che perde i petali: così era il nostro amore.

Ecco il racconto inviato a Parolario che non è stato giudicato meritevole di essere pubblicato in un libro (I racconti meritevoli erano soltanto quattro, un numero esiguo per giustificare la stampa di un volume. Presumo a questo punto che quelli di Parolario si siano intascati i soldi destinati alla pubblicazione!!! Aspetto smentite ufficiali). Il bando di concorso lo trovate qui
Visto che l’ho scritto per l’occasione, dal momento che ho voluto mettermi in gioco raccontando una storia importante, ho deciso di pubblicarlo sul blog.


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