Ormai il tempo volge al termne, ma ancora c’è tempo di fare una gita. E questa volta ci tenevo davvero tanto a farla.

Escursione in barca per le isole dell’arcipelago di An Toy. Alle 8.30 puntuali il bus ci prende e ci dirigiamo praticamente verso sud. È tutto così in fretta, non si perde tempo.

Questa volta ci accompagna una ragazza vietnamita, il cui nome tradotto in italiano è “fata”. Simpatica, della fata poco o niente, ma sono dettagli, con un cerotto tondo tondo quasi invisibile, quello per i brufoli, sulla guancia e un evidente rossetto rosso.

Il bus riesce a percorrere il viale principale miracolosamente indenne, sfiorando al millimetro gli ombrelloni, i motorini e le venditrici di street food (dove street ripeto è dove cucinano direttamente il cibo).

Uno sfanculamento in diretta, tradotto prontamente in italiano, tra il nostro autista e non so chi altri, protagonista della strada.

Al Seaport di An Thoy, ma non dovrebbe essere harbour?, prendiamo la barchetta di due piani e ci spalmiamo tutti sulle chaise longue. Zigzaghiamo tra le altre bagnarole, talora così minuscole e imprensentabili, che temo possano affondare da un momento all’altro.

In poco tempo il paesaggio si allarga, l’odore di fogna svanisce e rimane ampia la visuale di grande respiro dell’arcipelago. I piloni altissimi sono i punti di riferimento incontrastati del paesaggio.

Ci dirigiamo all’isola di fronte a quella su cui hanno costruito l’Aquafun, bellina, piccola, con una spiaggia ancor minuta. Veniamo condotti a riva da una scialuppa che nel frattempo si è attaccata a noi. Sembriamo i profughi della Libia. Poi io, cretino, con la sacca del telo mare e pinne, la custodia della macchina fotografica e la borsa di Mater, potete immaginare la mia agilità nello scendere a riva. Sembravo il marine durante lo sbarco nella costa della Normandia. Dai, almeno non sono precipitato, affondando tristemente.

La location perfetta, o meglio quasi, in giro un po’ di sporco, come marchio di fabbrica del Vietnam ma il mare è superlativo. Mi infilo in acqua. Mater sparisce alla mia vista e non ho capito dove fosse andata. Probabilmente stava ubriacando quelli dell’organizzazione con le sue paturnie.

Dopo la nuotata, e dopo lo smadonnamento per la breve passeggiata a piedi nudi sui pezzi di corallo, siamo tornati sulla barca ripetendo le stesse operazioni dello sbarco.

Ci dirigiamo in un’altra isola. E questa volta ci concediamo lo snorkeling. Bello. Davvero. Io plano nell’acqua con la stessa grazia di una balena che sbatte la coda durante l’immersione. Ma credo che i pesciotti non si siano scomposti più di tanto dello tsunami provocato.

È così tempo del pranzo vietnamita sulla barca. Gli odori non sono proprio i tipici di una trattoria valtellinese, ma tant’è… Spilucchiamo riso, gli involtini di primavera, un po’ di pesce, la zuppa di non so bene cosa e le verdure. In compenso la frutta era buonissima.

Assonnati, decrepiti durante la digestione, torniamo indietro e per le tre e mezza (un’ora prima del tempo previsto) siamo al porto.

E visto che è presto, mi concedo un giretto alla pagoda di Su Muong, o qualcosa del genere a pochi chilometri dal resort. Più che la pagoda ero incuriosito dal budda coloratissimo, panzone sulla cui prominenza erano attaccati delle divinità. Ovviamente non poteva mancare la foto di rito.

Al ritorno, abbiamo preso l’unico taxista il cui driver non sapeva neanche dove si trovasse, e nemmeno sapeva leggere il nome dell’albergo scritto a caratteri cubitali sul braccialetto. Dopo un paio di telefonate, penso alla moglie che lo ha cazziato, è riuscito a portarci all’albergo. Era l’unica strada che poteva percorrere. Non ce ne erano altre.