Volevo lasciare l’albergo presto per guadagnare tempo. Avrei fiondato la signora di non so quale nazione che aveva consumato l’acqua per il caffè espresso, quando su ogni tavolo c’erano caraffe intere di caffè bollente. E io che volevo del latte caldo che veniva erogato solo dalla macchinetta. Ci volevano almeno dieci minuti perché tutto ritornasse funzionale. Ho ingurgitato del latte freddo, la briochina striminzita, la fetta di formaggio e sono scappato, imprecando dentro di me e maledicendola.

Alle 7.30 lungo la tangenziale non ho trovato neanche una pecora. Come nella nostra Brianza! Mi sono permesso il lusso di schiacciare l’acceleratore sfiorando la vertiginosa velocità di 90 km orari. Di più sarei finito nel mare.

Ero bello e speranzoso sotto il cielo terso. Lungo il cammino ho visto ben due arcobaleni, la baia di Torshavn era impreziosita dai raggi solari obliqui che illuminavano il porto. Clima tiepido, diciamo primaverile.

Sereno come il mio animo mi sono lasciato alle spalle la capitale per un lungo e periglioso tragitto seguendo le forme sinuose dei fiordi. Direzione nord-est.

Dopo una ventina di chilometri, delle nubi minacciose hanno iniziato a coprire le alture, per poi adagiarsi sotto forma di nebbiolina lattiginosa sulla strada. Ho continuato il resto delle imprecazioni.

Dopo due tunnel, di cui uno sotto il mare, lungo ben 6 chilometri (altro che Italia!), raggiungo Klaksvik, un nome impronunciabile, la seconda città delle Faroe. Spettrale, fredda, cupa, con il solito venticello che ti sferzava gelandoti le orecchie e il naso. Non c’era nessuno. Ho percorso a vuoto un primo giro della città perché non sapevo dove fosse il molo del traghetto, ma essendo piccolissima, girato il fiordo, l’ho trovato. Proprio accanto alla caserma dei Vigili del Fuoco, che era deserta anche quella.

Le operazioni di imbarco mi hanno messo un patema. Abbiamo incastrato le auto come nel gioco del tetris, ovviamente con gli specchietti chiusi e con il vichingo che ti indicava lo spazio millimetrico entro cui posizionare l’auto. Ho sudato freddo, come se non bastasse quello fuori.

Kalsoy è un’isola a forma di bastoncino, un mignolino, un togo. Una strada sulla litoranea e niente più. Quattro tunnel, larghi solo 3 metri e lunghi in media 4 chilometri. Temevo di incastrarmici dentro. Ma non c’era nessuno. Altri brividi.

Arrivato alla parte settentrionale dell’isola sotto il diluvio universale, mi sono incamminato su per il sentiero che tagliava in diagonale la montagna. La prima parte l’ho fatta con facilità, nonostante il fango. Dietro di me una copia settantacinquenne (credo anche di più). Erano al cancello all’inizio del paese, dopo neanche cinque minuti me li trovo proprio attaccati al culo, belli, freschi, senza un cenno di fiatone, con la dentiera splendente. Ci siamo fatti le foto coi cellulari (quella in cui stavo per rotolare giù, tanto per intenderci) e mi hanno sorpassato come se niente fosse.

Intanto io me la sono presa comoda, osservando le pecore, guadando i fiumi, inzaccherandomi gli scarponi. Arrivato sul crinale orientale, ho visto, come in un miraggio il faro. Era proprio di fronte a me, non più di duecento metri. La coppia olandese la vedo tornare sconsolata: “Do you want to reach the lighthouse? Good luck! It’s to sleepery”.

I primi trenta secondi li ho sfidati, infischiandomene, ma dopo due storte in cui stavo davvero per rotolare a valle, ho desistito e ho seguito il consiglio dei vecchi; se non ce l’hanno fatta loro, perché io sì? Ho provato altri due passi incerti ma il piede destro continuava a cedere, ho cercato di avanzare anche con il fondoschiena quando, mio malgrado, tacendo le motivazioni del cuore, ho fatto funzionare il cervello. Ho preso una decisione saggia. Nonostante tutto e il rammarico di non poter vedere forse l’attrazione più bella di tutte le Faroe. Pazienza. Mi sono consolato con le pecorelle che mi facevano ciao, anzi mi guardavano soltanto ruminando instancabilmente. E nulla. Piccolo particolare. Un sole della madonna e cielo azzurrissimo appena disceso la montagna. Merda.

Sono arrivato al paesino della Donna Foca (e non f…, come qualcuno mi ha scritto su FB) e nonostante i mille gradini per arrivare sul mare, sono riuscito ad osservarla da vicino. Ero ad altezza foca e non ho potuto non notare un particolare.

Scusate la depravazione.

Il resto del tempo, relax fino alle 17 aspettando il traghetto. Mi sono divertito come un sadico a far scappare le pecore che erano sul bordo della strada schiacciando come un forsennato il clacson. Alcune si gettavano impazzite lungo il pendio del fiordo, altre alzavano la testa guardandomi per dire: “che vuoi?”. Non si spostavano neanche di un millimetro.

Le operazioni di imbarco del ritorno sono avvenute senza incastri particolari e senza patemi. A parte il moto ondeggiante, i venti minuti di tragitto sono stati rilassanti. Ovviamente Klaksvik, ancora spettrale. Chissà dove andrò a mangiare. Stay tuned.