In aeroporto, ieri sera, mi sono seduto in un ristorante e ho mangiato la cotoletta alla milanese che solo in quell’aeroporto eraì l’unica così croccante in tutta Vienna. Eccerto, per 26 euri…

Le tre ore a disposizione le ho passate con la schnitzel, il computer da una parte e il telefono dall’altra. Ultimi momenti di un mondo connesso. La Marianna mi manda una sfilza di messaggi, mi chiede se ho prenotato il transfer dall’aeroporto all’albergo. Ma certo mia cara. Le mando il voucher. Mi rimanda una serie di messaggi sempre più preoccupati. Ho sentito l’albergo, non hanno nessuna prenotazione a tuo nome, e il telefono segnato nel voucher non è dell’Armenia.

Cara Marianna, Yerevan non può essere peggio di Caracas, se non ci sarà nessuno, vorrà dire che prenderò un taxi. A questo punto si sente in dovere di chiamarmi sempre più allarmata. Risata fresca, inglese cristallino. Ma sì, stai tranqui… Non mi spavento. E mi dà la “marca” ufficiale dei taxi di cui posso fidarmi. Teme che mi sequestrino e che mi ritrovi senza un rene. La comunicazione si interrompe con un punto interrogativo. Riuscirò ad uscire dall’aeroporto? Tra un boccone e l’altro, scrivo il mio diario di bordo, alla fine scopro che sono in ritardo per il gate. Ok la solita corsa per il terminal G. Intanto mi massaggia la Marianna poco prima di infilarmi nell’aereo. Good news, ci sarà qualcuno domani a prenderti. Bene, cosa ti avevo detto? Stai tranqui.

Salgo sull’aereo. È la Casa Prina al completo. Il desiderio di scendere immediatamente si fa impellente. Mi chiedo se avranno un defibrillatore. Uno con la mascherina da notte, indossa gli occhiali. Sono discoli, si alzano durante una forte turbolenza, non so da che parte del mondo. Vedo una vecchietta che si sta per schiantare contro la cabina dei piloti. Solo la solerzia delle hostess, la salvano da una frattura certa dell’acetabolo. La fanno sedere e le stringono la cintura come se fosse un torniquet. Si sbracciano, gridano in armeno, in russo e non so in quale altra lingua astrusa. Forse tedesco. Tutte facilmente comprensibili!

Io sono preoccupato perché l’aereo va velocissimo anche quando mi sembra che siamo a pochissimi metri dal suolo ma me ne sto zitto per non infastidire le hostess che hanno il loro lavoro da badanti. Infatti fa una frenata incredibile. Secondo me qualche dentiera è partita. Nella notte buia, con una tempesta in corso, lampi e straluscicchii. Un tempo da orbi, da diluvio universale. Bé, siamo vicini all’Ararat, cosa devo pretendere di più?

I controlli sono poco più che un fastidio. Esco e mi trovo il mio transfer. Ha in mano due fogli Many Chats e Carletto Genovese. Me li mette in faccia. Caro transfer, di chats ce ne ho poche e non sono nemmeno iscritto a Only Fans perché altrimenti sarebbe una tragedia per l’umanità. Non parliamo, siamo due mimi. Parlare in inglese ti guarderebbero malissimo. Usciamo, prendiamo l’auto in silenzio, per i viali periferici di Yerevan, devastati dal diluvio appena passato. Ad un certo punto si ferma, anzi inchida, mi fa vedere la password del wifi. Ne approfitto per mandare dei messaggi a Mater. Non c’è nessuno sulle strade. Mi sembra di essere la particella di sodio dell’acqua Lete. Davanti alla fabbrica Noy, si gira verso di me, incurante della strada: NOY. Ah! Ma sa anche parlare. Wodka, armenian cognac. Bene, gli rispondo con un timido DA. Spero di non aver fatto una stronzata.

Arriviamo in albergo alle cinque. Ovviamente le camere non sono libere. Mi dicono di riposarmi nel bunker interrato nell’Elysium Hotel (penso all’esilio), mezzo diroccato, a distanza di cortile dall’albergo. Sono in un locale, probabilmente per i dipendenti, che una volta sembrava fosse la hall dell’albergo. Un posto festaiolo si direbbe. Cucina, tazze sporche, un bagno microscopico di 50 cm. Mi sdraio sui divanetti, sentendomi con la coscienza sporca. Mi sembro un anarchico che okkupa una casa. Mi sento inquieto ma precipito nel sonno. Una vecchietta che inizia a pulire con il mocio, che fa andare la lavatrice nel locale adiacente, mi sveglia. Sono terrorizzato. Sono le 9, beh, è un buon orario per vedere la città. Ma come uscire? Mi sentivo ancora con la tensione. In realtà poco dopo arriva un armeno e mi saluta come se niente fosse, come se un italiano in un bunker fosse la cosa normale in questa città. E va bene. A testa alta esco nel cortile. Mi raggiunge uno dell’albergo. Ecco, adesso chiameranno lo polizia! Invece no, mi sorride e mi dice che la camera è pronta. Ma come, quattro ore fa, non ce l’avevate? Ma chi se ne frega…

Alle 10 inizia la mia peregrinazione per il centro di Yerevan. Percorro la via principale. Mi fermo al Caffé Sorriso dove per 3600 dram mi prendo una fetta di torta alla carota e un cappuccino. 8 euro. Ma ci voleva, dopo la notte avventurosa. C’è il sole ma il cielo è lattiginoso, anzi bianco. Un’afa e una cappa di umidità mi tolgono il fiato. Arrivo fino al museo di Storia Armena, poco oltre il centro, percorrendo tutte le strutture post-sovietiche. Fontane zampillanti aumentano il senso di afa. Passo accanto ai vari ministeri, al palazzo del Governo in piazza della Repubblica e percorro in senso contrario la strada principale. Il centro si è riscattato, palazzoni, costruiti ex-novo, fanno dimenticare presto il background sovietico. Arrivo dall’altra parte della circonferenza, in piazza della Libertà. L’altra attrazione, oltre al palazzo dell’opera, è la cascade una mostruosa scalinata, come la scalinata di Trinità dei Monti ma ingigantita almeno dieci volte. Arranco sul travertino. Lentamente, gradino dopo gradino, dopo essermi fermato ai cinque palchi, arrivo su in cima, sudato come un maiale, col fiato corto, ma fiero di essere arrivato sulla cima da cui degrada la città. Non contento, almeno in piano, mi spingo con le ultime forze, alla gigantesca statua, la Madre Armenia, un donnone, altro che la Marianna Francese con le zinne di fuori o la Venere del Botticelli!, che brandisce uno spadone. Ai suoi piedi resti di carri armati, missili, e bandiere, bandiere e bandiere. Il rosso, l’arancione e il blu…

Insomma è il simbolo della libertà dell’Armenia contro l’invasione dei russi. Altro non so, non voglio raccontarvi cose che potete trovare su wikipedia. Bene, mi riposo sulla collina, in un parchetto adibito a luna park e quando ho ripreso vigore, scendo giù per quel migliaio di gradini, facendo saltare le ginocchia. Ritorno in basso e in piazza Libertà mi bevo un litrozzo di caffé freddo per rinfrescarmi…