Ero già pronto a lottare contro i giapponesi alle otto spaccate, avevo già dissotterrato l’ascia di guerra, affilato le unghie. Invece, nulla, c’ero io soltanto a godermi della colazione. Mi sono seduto al centro della sala e mi guardavo attorno. Possibile che non ci fosse nessuno?

E così me la sono goduta, mangiando con tranquillità, sorseggiando il latte caldo, la fetta di torta. Mi sono attardato ma alle nove dovevo scappare. Visto che la guida arriva alle 11 e dal momento che volevo vedere la collina del genocidio, mi sono portato nel vialone principale della città. Ho fermato un taxi, gli ho fatto vedere il nome traslitterato in armeno del museo. Capisce, mi guarda e mi dice no. Sparisce, lasciandomi come un fesso in mezzo alla strada.

Ne fermo un altro, vecchio pure questo. E mi fa salire. Tranquillo parte, fa la strada ufficiale. Ho paura che mi freghi come turista, in realtà è onestissimo, mi chiede soltanto due euro. Anzi appena si vede la collina nella sua interezza, si sbraccia e mi indica il punto dove volevo andare. Sì, caro. Stai tranquillo. Lo so che è là. Rispondo con un mesto DA, sperando di non fare figuracce. Mi sorride e mi porta su in cima alla collina.

È una spianata, rinverdita da una quantità impressionante di cipressi, abeti, ognuno dei quali un ricordo particolare, o una commemorazione da parte di uno stato. Incomincia a venirmi il magone, ma lo caccio indietro. Evito accuratamente di entrare nel museo, non ce l’avrei fatta. Percorro tutta la spianata fino al monumento che si affaccia sulla città. Hai una vista a 360° di Yerevan. Un posto bellissimo e non poteva essere altrimenti. Mi attardo giusto un momento tra le colonne e mi avvicino alla fiaccola. Ok. È ora di tornare.

Scendo velocemente la collina, rischiando l’acetabolo. Arrivo allo stadio. E qui la mia figura colossale, di merda, che se la ricorderanno per tutti gli anni a venire. Vedo un’auto bianca. Qualcosa di scritto sul tetto. Mi fiondo, apro la portiera. Sorrido city center. Questo mi guarda terrorizzato, indietreggia, sento che sta per urlare. E in un attimo ho la perfetta sensazione di aver sbagliato. Era un’auto della scuola guida. Che figura! Sorry, sorry, sorry, mi piego quasi in ginocchio. Sbiascico le parole taxi, si mette a ridere. Dramma rientrato. Ma la cosa peggiore che l’auto aveva la targa della Georgia. Tripla figura colossale. Volevo sprofondare.

Così col morale a terra, attraverso il viale e mi impongo di arrivare in centro senza taxi, e per di più in bus. Passa il 4, con le indicazioni scritte in armeno, non c’era possibilità di individuare una sola lettera, l’autista mi risponde con una frase, nella quale riconosco la parola Mashtots, il viale che passa dal centro, il linguista che ha inventato sto maledetto alfabeto. Senza esitazione, salgo, temendo che la portiera rimanesse tra le mani. Faccio passare la moneta da 200, che arriva direttamente nelle mani dell’autista. E mi ritornano indietro 100 dram. E mi stupisco quando poco abbia pagato.

Appena riconosco il viale, scendo trionfalmente, con un sorriso ebete tra la gente che mi guarda in cagnesco. Visto che ce l’ho fatta? Tempo di arrivare in albero che arriva Marianna, sempre sorridente, con un bellissimo sorriso. Mi aveva mandato un messaggio per dirmi che si vedeva l’Ararat e le rispondo immediatamente che l’avevo visto. E intanto le spiego la mia disavventura.

Partiamo per il sud di Yerevan, imbocchiamo la autostrada 2 fino al monastero Khor. Quello da cartolina, famoso in tutti i dépliant sull’Armenia. Osserviamo le numerose cicogne che hanno nidificato su ogni palo della luce. Arriviamo al monastero. Sulla collina ammiriamo l’Ararat nella sua interezza, con i due picchi, il più grande parzialmente coperto ma bellissimo nella sua interezza. Saliamo su un promontorio e da quel punto privilegiato guardiamo il confine con la Turchia, i minareti e le mosche oltre il fiume. Un discorso tristissimo sul genocidio, da chi l’ha vissuto sulla propria pelle. Marianna mi raccontava con lucidità le malefatte della Turchia, usiamo pure questo termine. E diceva che il Monte Ararat è loro, che fa parte della storia. E che gli Armeni vogliono risolvere questo problema, ma sono schiacciati dalla Turchia e dalla Russia. L’unico modo è gridare e bussare alla porta di tutte le istituzioni. Il vento ci accarezza come a condividere questo momento triste nonostante la bellezza del posto. Rimaniamo fermi, trattenendo il respiro guardando la linea di confine.

Ce ne andiamo poco dopo, proseguente di nuovo a sud, fino al confine con l’Azerbagian. Alla rotonda svoltiamo a sinistra e saliamo, il paesaggio cambia. diventa montano, l’aria cambia, è più fresca e mite. Molto profumata. Sembra così lontana la città di Yerevan. Ci fermiamo a vedere diversi monasteri, una diga misteriosa che nessun turista ha mai visto e il cui nome in armeno non sono riuscito a capire cosa voglia dire. Alla base della quale dei simpatici vecchietti giocano a carte, litigano e poi si mettono a ridere. La parte più autentica dell’Armenia. Il sole ci accompagna fino alla visita del monastero della Santa Madre di Dio, piccolissima chiesetta suggestiva, abbandonata, lasciata andare e non più ripresa dai circuiti turistici. Bellissima. Alle nostre spalle le montagne ci guardano imperiose. Il cimitero copre tutta la collina. Dove c’è la bandiera è per ricordare qualcuno che è morto in guerra.

Ci fermiamo alla cava dove hanno trovato delle cose geologiche interessanti, ma non chiedetemi cosa e poi abbiamo percorso tutto il canyon per andare al monastero di Noravank. Il tempo si annuvola ma l’atmosfera è magica. Due templi affacciati sul canyon che si aprono sull’infinito. Ho quasi avuto una crisi mistica…

Al ritorno ci siamo fermati per due tappe gastronomiche. Dopo vedrete i video. E così ormai al tramonto siamo tornati a Yerevan. L’Ararat nella sua bellezza e maestosità accarezzati dalla luce del tramonto, mi emozionavano.