Per entrare in Aruba devi compilare un modulo digitale. Peccato che nessuno me lo avesse detto. Il poliziotto mi ha spiegato che con il wifi acceso, connettendomi al sito wwwedcardpuntononmiricordo, avrei dovuto farlo. Così mi metto in un angolino, provvidenzialmente prima di arrivare avevo preso una sim elettronica per cui sono riuscito a collegarmi al sito. Ho risposto alle 10 mila domande, tra cui il numero di passaporto, il motivo per cui ho scelto di venire ad Aruba, il segno zodiacale, quanti soldi avessi, dove avrei dovuto sostare, perché ho scelto la KLM e non una compagnia americana. Insomma, alla fine, vinco io e mi mandano il pdf bello verde con cui mi dicevano che ero pronto ad entrare ad Aruba. Il poliziotto mi stampa il passaporto e mi fa entrare nella one happy island. L’isola felice e unica. Proprio come in Italia.

Il sole ormai era tramontato e non riuscivo a vedere il mare dall’aeroporto. Ho dovuto aspettare che la tizia della Sixt Rent a Car mi venisse a prendere e portarmi all’ufficio per ritirare l’auto, che per inciso era a non più di 500 metri. Potevo andarci a piedi. Ormai il tramonto me lo ero perso. Faccio la prima rotonda e a momenti inciampo nel cordolo che delimita le corsie della rotonda. Panico. Qui sono fuori di testa. Entri nella rotonda e sei incanalato a seconda dell’uscita. Non puoi cambiare idea altrimenti rischi di far saltare le ruote. Se lo facessero in Italia, saremmo in giro tutti con le ruote saltate. Devi guardare bene il cartello e a seconda della destinazione ti immetti nella giusta corsia. Non puoi scegliere a casa dove metterti. Ok adesso mi sono abituato, ma ho avuto un crollo nervoso…

Dopo aver preso da bere per la notte, arrivo nel mio bungalow proprio di fronte al mare. Spettacolo. L’aria è calda, dolciastra, c’è umidità. Non ce la faccio a fare due passi. La receptionist ha pensato di darmi il benvenuto con un cartello disegnato a mano su cui c’era la mappa delle camere. La mia è proprio dietro l’angolo. Non c’è bisogno di convenevoli. I bungalow sono proprio sotto le palme. Alle 21 crollo nel letto in un sonno letargico. I mici miagolano appena fuori dalla porta. È un lamento flebile. Hanno fame, ma è espressamente vietato sfamarli. Alle 6 stamattina, mi sveglio e faccio in tempo a vedere l’alba, ad attraversare la strada e arrivare alle palme, alla spiaggia e al mare. Finalmente non fa caldo. Mi preparo per andare a nord, al Faro California, nel punto più settentrionale dell’isola.

Le abitazioni lasciano posto alla terra arida, l’oceano è turchese e lo diventa sempre di più a mano a mano che sale il sole. Il faro domina la parte a nord, è altissimo, dall’alto si potrebbe vedere mezza isola. Peccato non si possa salire. Così mi perdo nelle dune di sabbia, tra i cactus e la vegetazione insidiosa piena di spine. Un posto poco accogliente ma di una bellezza commovente. Nessuna casa, si vede la parte orientale dell’isola, è deserto. Mi lascio andare tra le dune di sabbia, arrivo al mare turbolento, mi perdo e mi lascio andare dalla meraviglia della natura. So che ho perso il sentiero, non trovo l’auto, per un momento mi sono trovato smarrito. Ma il faro mi conduceva al sentiero e alla strada. Così mi sono infilato nel bush pieno di rovi, di catctus, ho cercato di evitare le spine. Alla fine sono riuscito ad arrivare sulla strada e magicamente ho ritrovato la mia Toyota. Ritorno piano verso sud, mi fermo nelle spiagge, una più bella dell’altra. Borotocalco fine, e onde turchesi. Era proprio quello che desideravo. Peccato che non si potesse stare al sole, mi infilavo sotto la vegetazione e rimanevo lì ad ammirare lo spettacolo. C’era pochissima gente, troppo caldo, non esagero ma sui 40 gradi con un tasso di umidità pari al 90%. Da defungere immediatamente. Quando non ce la facevo, allora mi infilavo nella Toyota con l’aria condizionata a palla che funzionava egregiamente e iniziavo a respirare.

Dopo le spiagge mi sono fermato al Bennet dove ho presso tre mezze baguette e del formaggio, consumati avidamente in una di quelle spiagge. C’erano anche gli uccellini che mi importunavano e reclamavano qualche briciola, elargite abbondantemente. All’una veramente stavo male dal caldo. Non riuscivo a muovermi, anche per arrivare in auto mi pesava, sembravo un condannato.

Alla fine, mi sono fatto forza, contro tutto, con un disperato senso di sopravvivenza. Mi sono portato ad Oranjestad, dove ho comprato finalmente un cappellino. Mi sentivo rinato, almeno un pensiero in meno sulla testa, anche se il caldo era veramente invadente. La città, piccolina ed elegante, è pulita, perfetta. Qualche palazzo ha bisogno di un restauro ma alla fine è perfetta così. È una cittadina che si consuma in quelle quattro strade del centro. Alcuni palazzi ricordano la forma delle case olandesi, ma è solo una furbata per attirare la gente. In realtà sembra proprio una cittadina della Florida, una Miami in miniatura. Dei Caraibi, solo il nome e qualche atmosfera che si percepisce in qualche casa coloniale.

Sono tornato indietro e mi sono fermato su una spiaggia. Ho fatto un bagno lunghissimo, il sole ormai non era così terribile nonostante il caldo rimanesse. Nell’acqua però era tutto piacevole. Ho aspettato che il tramonto arrivasse, e alle 18.30 il sole si è tuffato nel mare.