L’alba quest’oggi non ha portato la magia. Il sole era nascosto dietro una nuvoletta e quando ha deciso di spuntare era già alto e il rosso si era dileguato. Di buon ora mi sono alzato e mi sono portato all’Arikok National Park, la cosa più bella di Aruba, prima ancora del mare, un tesoro nascosto ai turisti, alle coppie in viaggio di nozze, a quelli che risiedono nei resorts. È un’area protetta, desertica, al centro, che ricopre il 20% dell’isola.

Per fortuna perché già mezza Aruba è urbanizzata, lasciare qualcosa di naturale va solo bene. Ho deciso di arrivare presto per evitare la calura e il sole micidiale. Pensavo in due ore di cavarmela, invece sono stato lì fino al pomeriggio inoltrato, ma sono soddisfatto.

Puntuale arrivo alle 8 al Visitor Center, sono il primo, e probabilmente l’unico rompipalle a quell’ora. La cassa non è ancora aperta. La tickettara se avesse avuto la possibilità avrebbe sbuffato. Ma chi se ne frega. Mi dà un braccialetto, come quello dei villaggi. Non capisco, ho pagato la quota di ingresso, hanno la targa dell’auto, chi vuoi chi entri di soppiatto tra i cactus e le aloe? Mi mostra la cartina, i percorsi da fare in auto, quelli in cui c’è da camminare, e quelli da evitare perché solo per i fuoristrada.

Come uno scolaretto diligente ascolto e memorizzo tutto, sperando di non sbagliare niente. Alla sbarra del parco un altro signore anziano, marroncino, mi ripete le stesse cose della collega ma con più enfasi. Si raccomanda la velocità e di stare ben attento ai canali di scolo che tagliano l’asfalto. Un dramma, talmente profondi che inevitabilmente tocchi la scocca. Vado pianissimo, potevo andare a piedi.

La prima sosta è il Miralamar, una montagnetta. Sono bello pimpante e quasi fresco. Il caldo è sopportabile. Salgo una salita ripida contornata da cactus, aloe, e tante spine. Non puoi nemmeno fermarti o appoggiarti da qualche parte che te le ritrovi nel sedere. Salgo con nochalanche, evitando di diventare un puntaspilli. La vista è ottima, il cielo è terso, tutto reclama la sua bellezza. Prima bandierina piantata.

Scendo velocemente ma devo misurare bene le distante tra me e gli aculei insidiosi. Arrivo alla macchina e mi porto al confine orientale. La strada è bella ma ci sono questi maledetti canali di scolo, fatti di ciottoli, di pietra che tagliano trasversalmente la strada. Sto attentissimo, trattengo il respiro ogni volta che ci passo sopra. Intanto mi sorpassa una macchina su cui ci sono quattro ragazze: quelle di Donnavventura?

Il paesaggio si fa arido, desertico. Incomincio a pensare alla canzone A horse without a name. The first thing I met was a fly with a buzz And the sky with no clouds The heat was hot and the ground was dry But the air was full of sound. Incominciavo ad avere i miraggi. Arrivo alla Dos Playa. La strada ha lasciato il posto a un percorso sabbioso. Altro che Outaback dell’Australia! Proprio nell’inferno. La sabbia si alzava, mi mancava di vedere le balle di fieno rotolare. Arrivo alla spiaggia, spalmandomi contro le rocce per godere di quel minimo d’ombra. Il mare rabbioso si infrangeva con onde importanti. Lo spettacolo era bellissimo. Qualche granchietto mi osservava quasi per dirmi, umano che ci fai da queste parti? Ritorno indietro. Altra fermata, con un senso di masochismo profondo, scalo le dune di sabbia. Gli alberi sono secchi, defunti, morti. Il verde è stato lasciato da qualche parte. Trattengo il fiato, il vento mi fa ingoiare della sabbia. Una nuvola provvidenziale, impietosita dal mio stato moribondo e di pazzia, mi fa ombra.

Ritorno in auto e metto l’aria condizionata a palla. Calcolo i tempi ciclici, tra l’esterno e l’interno. Sono di una precisione unica. Quando non ce la faccio più mi rintano nell’auto e mi ripiglio.

Mi fermo alle grotte, speravo almeno un po’ di fresco. No, nada, niente. Il ranger intanto mi spiega, non sono molto intelligente, anzi con questo caldo non capisco niente. Intanto parla. Mi fa vedere i lucertoloni. Quelli azzurri elettrici sono maschi, e fanno colpo sulle squittinzie femmine proprio per questo azzurro elettrico. Si infervora soprattutto quando mi fa vedere un pitone appisolato sopra le nostre teste. Un boa innocuo. Seee, come no! Lo guardo con il terrore negli occhi. Se salta sulla mia testa! Scappo. Lascio il ranger di fretta che si sbellica di fronte alla mia codardia.

Arrivo ad una fonte, una pozza d’acqua, una sorgente, in mezzo al nulla, al deserto. La guardo incredulo. Sarà un miraggio. La vegetazione è rigogliosa. Gli animali, le caprette impazziscono. Sono lì ad assetarsi. Alcuni turisti pensano di mettere i piedi nell’acqua. Non ci penso minimamente. Non vorrei trovarmi senza piedi.

Arrivo al confine orientale del parco e torno indietro. Ormai sono le due. Percorro con la stessa ossessione la via del ritorno. Non sopporto i sassi e tutto il resto. Rinuncio ad arrivare alla montagna più alta di tutta l’isola. Ed esco dal parco con la sensazione di essere un miracolato, un risorto, uno che ha una fortuna sfacciata ad essere ancora vivo. Sono esausto ma felice di questo parco, uno dei più belli, che mi ricordava i paesaggi di Tucson e del deserto del Sonora.

Mi perdo nelle vie periferiche di Oranjestad, dove l’isola non è ancora stata contaminata dalla bella vita americana e dal dollaro statunitense.

Arrivo di filato al Santuario dell’Asino, pochi chilometri dal parco. Uno zoo, simile al parco delle Cornelle in piccolo, dove ci sono solo asini, asini e asini. Sì qualche pavone, qualche gallina e tanti micetti. Mi scolo una lattina di té freddo e poi do da mangiare agli asinelli che si scornano per riceve il cibo dalle mie mani. Mi guardano, allungano il collo, mi sorridono, mi lascio sbavare. Li accarezzo, cerco di farmi dei selfie ma il sole è troppo abbagliante da capire bene che cosa inquadro. Alle 4 e mezza torno indietro e mi fermo alla Eagle Beach, la più bella, la più sabbiosa, con il mare più turchese. Insomma, perfettissima da cartolina. Peccato per i resort alle spalle.