Stamattina sono andato di nuovo al centro dell’isola, poco prima dell’Arirok Parque perché dovevo vedere due attrazioni del perfetto turista arubiano. Il primo è l’Ayo Park, un Ayers Rock australiano in piccolo. Anche il nome è completamente simile. In pratica ci sono questi massoni giganteschi che sono lì, ammassati e non si capisce dove provengano. È un luogo sacro, come quello australiano. Entri e lungo un sentiero ti intrufoli nei pertugi tra un masso e l’altro. Avevo timore di incastrarmi e di non riuscire ad uscire. Considerata la mia mole, evento molto probabile. Che figura avrei fatto se avessero dovuto chiamare i vigili del fuoco per disincastrarmi! Ma non avrei mai rinunciato per niente al mondo di vederle, anche da dentro.

Mi sentivo schiacciato e mi mancava il fiato, rischiavo di scivolare ad ogni passo, così ho deciso di culare sulle rocce per buona parte del percorso. Almeno andavo sul morbido. Dopo un’ora di fatica e di sudore, di incoscienza, arrivo alla fine del percorso. Delle caprette mi guardavano per dire, beh cosa ci vuole? Stupide…

Ho cercato di riprendermi nel giardino, ovviamente pieno di cactus, sedendomi su una panchina, evitando di farmi pungere. L’aria era fresca e il sole era sopportabile. Strano.

Così mi porto al Natural Bridge, poco più lontano, lungo una strada ghiaiosa, da cui si alzava un nuvolone di polvere. C’erano quelli che se la facevano in bici, poveri. Avranno tutti la bpco e l’insufficienza respiratoria. Il posto era molto bello, il bridge poco spettacolare. Diciamo che ce ne sono di migliori in giro per il mondo. Secondo me non valeva la pena vederlo. Ma stranamente tutti i turisti arubiani, con jeep, pullman si erano riversati lì. Mi guardavo attorno e mi chiedevo dove si trovasse tutta ‘sta gente. Non so, in giro non c’è molta gente, anche per colpa del caldo insopportabile… Vecchietti a rischio di frattura dell’acetabolo, ganzetti che piroettavano con il quad, donzelle di tutte le età nelle posizioni più assurde per il selfie perfetto, proprio accanto al cartello di pericolo crollo ponte. Insomma me ne sono scappato immediatamente. L’unica cosa bella che meritava era il visitor center. Una palazzetta di colore arancione sulle pareti della quale era dipinto un meraviglioso murale. Ecco. Per il resto si poteva scappare.

Così ho fatto, direzione Oranjestad, in particolare alla rotonda dell’aeroporto, dove accanto alla pista c’è una spiaggia incantevole, proprio incastrata tra il porto della città e la recinzione dell’aeroporto. Gli aerei arrivano praticamente sulla spiaggia. Certo mai come il brivido di Saint Martin, dove si dice che la gente stia proprio sulla spiaggia ad aspettare l’aereo. Dicevo la spiaggia. Pensavo quelle a nord fossero le migliori, ma questa era perfetta, uno specchio d’acqua immobile e cristallina, d’un turchese che neanche gli occhi del mio Jake.

Dopo un bagno tonificante, mi sono asciugato al ritmo raggae sparato dagli altoparlanti del bar tamarro lì vicino. Ero seduto nel portico di un bar chiuso, dove due ragazze con un liquore non meglio identificato e succo d’arancia, stavano passando al setaccio tutti i boys di Aruba. Davano pure i voti. Mi sembrava di essere ad una puntata di Tu si que vales. Lasciate al loro destino, mi porto a sud dell’isola, ancora sconosciuta.

Sicuramente più verde, più floreale, con la stessa intensità abitativa. Arrivo a San Nicolas. Pensavo di trovarmi un paesucolo sporco, trasendo, annebbiato dalla città di Oranjestad. Invece mi sono dovuto credere. Una bellissima cittadina, nonostante la raffineria. In questa città ci si ritrova lo spirito autentico di Aruba, il caribe perso a nord, venduto al dollaro americano. Una cittadina vivace, coloratissima, con tantissimi murales, uno più bello dell’altro. Colori ovunque, dappertutto, sulle facciate. Talmente ero entusiasta del paese che non ho sentito il caldo atroce che spioveva sulla mia testa. Ho percorso le viuzze laterali, guardavo i murales, osservavo il cielo terso e azzurrissimo, come l’azzurro degli aerei della KLM. Tutto era così vivido, perfetto. In alcuni murales era la scritta I LOVE ST NICOLAAS. Bello, davvero, niente turisti, niente paccotteria varia, spirito autentico. Vecchietti seduti al bar della stazione dei pulmann che fumavano come turchi e giocavano a carte. Le donzelle erano annoiate nel parco cittadino. Ho visto i vigili del fuoco e la sede della polizia e della croce rossa. Cose che ho mancato di vedere nella capitale. Davvero un bel posto, anziché quello artificiale dei resort a Palm Beach, resort il cui stile è ben collaudato dall’iconica way of life americana. Qui davvero il caribe lo vedevi e lo sentivi tutto.

Dopo essere stato sotto il sole per due ore, mi sono accorto di essere disidratato. Sono entrato nel Burgher King e ho bevuto litrozzi di coca-cola. Era la seconda volta, ma mi ci voleva. Davvero. Così tutto rinvigorito sono andato a vedere la Baby Beach. Questa, come avete visto nel video, era spettacolare e, credo, la più bella in assoluto. Una mezzaluna perfetta, una baia di sabbia perfetta, acqua manco a dirlo, trasparentissima con tanti pescetti. Bello, sul serio. Mi sono buttato a panza a terra, veloce, dopo essermi spogliato sotto un alberello. E ho pure fatto il video. Proprio questa parte di Aruba mi stava appassionando sul serio.

E infine, sono andato a vedere la punta estrema di Aruba, dove sorge un faro, non di quelli tradizionali ma assomiglia più che altro a un tralicio. Sono tornato indietro, passando dal Bassone di Aruba, e ho percorso tutta l’A1 fino a Palm Beach del mio albergo.