Di nuovo in partenza, per l’ultimo. Sempre la solita fatica, le solite battaglie per avere quei quattro giorni in più, per goderti di quei momenti che possano solo essere per te e di nessun altro. Capo Verde è stato un ripiego, come la maggior parte degli ultimi viaggi. Ma si sa, quando vuoi e cerchi la pace, il desiderio di tenerti qualcosa di tuo, niente è così scontato. The battle of evermore. Comunque ho deciso ancora una volta per un’isola, la mia dimensione ideale, non ha importanza quanto grande purché sia circondata dal mare, da qualcosa che ti separi dagli altri; un’isola è una cellula immersa nel terzo spazio, umido, senza altre strutture connesse. L’isola ti protegge dagli attacchi, da tutto ciò che ti potrebbe dare fastidio e allo stesso tempo è tutta per te, la puoi affrontare; ha un inizio e una fine. Meglio ancora se è rotonda, attorno alla quale puoi girarci infinite volte, in questo moto, condannati dalla delta di Dirach. Capo Verde era una tessera di puzzle da incastrare, al fine di formare il disegno che ancora deve completarsi. Non ci sono altri motivi, oltre al caldo e al mare. Avrei preferito un’isola un po’ meno piatta, e molto più verde. Mi manca tanto ultimamente il verde. Non solo manca a me, ma nel mondo dove vivo. L’altro ieri sono andato sul Monte Goi ed era tutto spelacchiato senza alberi, una radura brulla, inguardabile. Lo stesso dicasi sul Baradello. Dalla mia casa non posso più vedere la muraglia di alberi. Davvero, ho bisogno di natura, di vento, di aria, di sole, ma anche di pioggia, perché no?, pur nel verde.
Questa volta porto Mater, che sta confondendo tutte le mete nelle quali è stata. Capo Verde a seconda dei casi può trattarsi di un’isola dei Caraibi, o di un atollo dell’Oceano Indiano. Ma chi se ne frega, purché anche per lei ci sia sole, mare e caldo, così possa asciugarsi i bronchi di questo inverno “tainted”, malato, tarlato.
Volo via Lisbona, con TAP, ovviamente all’ultimo giorno dell’anno, con la speranza di festeggiare il nuovo anno, non in volo, magari, ma probabilmente nella zona grigia areoportuale di Sal, tra i nastri trasportatori e la frontiera. Ma è così: prendere o lasciare. Alla mia età è veramente rischioso lasciare. Bisogna sempre prendere.
Così sono su questo aereo della TAP, scomodissimo, senza snack, e se lo vuoi te lo devi pagare caro, che mi sta portando nella città dove tramonta il sole, Lisbona vuol dire questo.

Alla Malpensa, mezza vuota, mezza sonnolenta, al banco del check-in, ho fatto diligentemente la mia fila senza lamentarmi. Mi chiama la Donatella quando sono in coda, panico, sono qui col passaporto in mano, e mi dice che l’hotel è in overbooking. Over… che? Pieno, full, no stanze. E dunque? Le do, due proposte, guardi la email, mi dice bella carica. Ancor più panico.

Ci sono turisti che traportano questi catafalchi di tavole da surf, ingombranti come catamarani. Ma puoi partire con queste cose? Ci inciampo. Do poca retta alla ragazza TAP e intanto scorro le email. Albergo mastodontico, all inclusive. Prendere o lasciare. Ma certo che prendo, mica dormo nel sacco a pelo sulla spiaggia. Tanto non c’è da pagare niente, almeno spero. Mi sembra una buona proposta. Vedremo stanotte quando arrivo.

Al metal detector con metà delle certezze di questo viaggio ormai infrante, un signore, vecchio bacucco, che vuole fare lo splendido, anzi vuol far colpo su Mater, mi chiede di invitare la “consorte” al varco dedicato alle famiglie, sostanzialmente vuoto. Senti, attempato di un signore, mica siamo al Milf Gate, è lei, guardando Mater, non è la mia consorte. Intanto fa il galante con la dentiera in bella mostra davanti a Mater. La tentazione di fargliela ingoiare, la dentiera, è forte, ma lascio perdere.

Stizzito mi preparo allo show. Sento che mi cadranno i pantaloni, senza cintura. Pensate che figura di m. davanti alla “consorte”.

Dopo i controlli, davanti al gate, mi sento chiamare “il signor Genovese è pregato di presentarsi al Gate numero 7”. Oddio, che cosa c’è? Il signor Genovese, viene ripetuto. Divento bordeaux di vergogna. Non mi era mai capitato che venissi chiamato al gate per sbrigare pratiche burocratiche. Sì ci sono state altre volte quando ho rischiato di perdere l’aereo, ma ora…

Abbiamo sbagliato con l’etichettatura dei bagagli, mi dice la riccioluta del gate. Tachicardia. Ma lo sapete che le coronarie sono quelle che sono?, le sussurro, pensando alle mie valigie in qualche sobborgo di Parigi o di New York. E’ vero non ci siamo dati molta retta. Io dovevo guardare le email e tu, boh, non so. Dopo cinque minuti, lei mi fa: Ok, tutto a posto. Vede, abbiamo risolto. Secondo me, a Sal, mi ritroverò una tavola da surf a mio nome. Boh! Speriamo di arrivarci.

Per ora sono quasi a Lisbona, spero di scendere in fretta. Quello dietro mi terremota il seggiolino, mi scatarra su quei pochi capelli che ho. Giuro che adesso gli pianto una fiala di Propofol direttamente nella giugulare.
Arrivo in aeroporto. L’aereo è parcheggiato in mezzo alla piazzola. Scendo a falcate la scaletta. Abbiamo praticamente mezz’ora di transfer. Intanto l’asilo nido scende dall’aereo. Non capisco se sono più passeggini o bambini o viceversa. Le madri raccattano i picciriddi spiaggiati sulla piazzola. I mariti che rivolgono alla Vergine di Santarem le loro preci.

E’ tutto complicato. Un passeggino viene dimenticato sull’asfalto. Facciamo tutto il giro del terminal per arrivare al transfer. Salto la fila del passaporto. Uno, in portoghese largo, mi dice di stare calmo, gli rispondo che colpa ce n’ho se la moglie è stordita e non sa dove infilare il passaporto. Mi mordo la lingua. Un suggerimento ce l’avrei…

Prendo al volo l’occorente per il brindisi e mi infilo nell’altro aereo e le porte vengono chiuse. Pronti per l’arrivo a Capo Verde…