Défense d’aimer


D’accordo, se non ci fosse (stata) una casa di distribuzione video come la Dolmen con la collana queer, non avremmo mai visto il secondo film di Rodolphe Marconi, passato anche al Festival del cinema gay lesbico di Milano, girato in odore di Centro Sperimentale di Cinematografia e quindi a Roma tra gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Francia, la scuola, per intenderci, dove alcuni giovani coltivano ossessioni, disperanti necessità di espressione. Scrittori, attori, registi si ritrovano fianco a fianco come in una scuola qualsiasi, ma si capisce subito che Marconi rifiuta il terreno di scambio aperto. Lo stesso regista incarna il protagonista Bruce. È una posizione narcisa, dal momento che quasi dieci scene su dieci contano la presenza del giovane francese. Che sembra sprofondare nell’amour fou, così tipico della cinematografia francese. Se dovessimo tirare in ballo qualche nome, non potremmo sottrarci dal ricordare Truffaut e Chabrol. Il primo per la vena romantica e l’ostinazione, la voglia di andare sino in fondo dei personaggi loro malgrado, ed il secondo per l’indecifrabile trasformazione dell’essere umano che lo porta al delitto. Non casuale il riferimento al serial killer che serve d’anticipazione (un po’ detestabile per la suspense). La Roma di Marconi è molto austera ancorché non rinunci a qualche scorcio turistico. La freddezza della ripresa digitale è fin troppo spinta nella prima parte, mentre nella seconda, grazie anche alla piega noir thriller, l’ambientazione vira completamente verso il buio notturno o la penombra resa ancora più spettrale da luci degne di Mario Bava. Certo la storia e la recitazione qualche volta sembrano troppo legnosi, però alla fine affiora vividamente il percorso d’incontro tra due esseri spesso viziato, come in questo caso, da aspetti del carattere individuale molto differenti. Certo il titolo “defense d’aimer – divieto d’amare” non può riferirsi all’amore omosessuale, semmai alla dimensione pervasiva del sentimento d’amore qualunque esso sia. Una critica americana, ma ne tacciamo la fonte per rispetto all’autore del testo, afferma che la cupa dissoluzione di Bruce è causata dalla scoperta della propria omosessualità. Al contrario, l’unica scoperta è quella di un sentimento totalizzante che fa paura, ma non si può rifiutare, l’inclinazione e la preferenza sessuale quindi non c’entrano nulla, perché l’amore è sempre, perdonate la sdolcinatezza, un sentimento universale, che “opprime” e trascina.

Qui non c’entra nulla la paura di amare. Siamo di fronte all’incapacità totale di amare da parte di uno psicopatico, il registra e protagonista principale. È talmente narcisista il soggetto, che non capisce più niente quando una telecamera lo inquadra. Considerato che il 99% del film, il soggetto è lui, immaginate il resto…

Puerile, brutto, forse alcune immagini avrebbero avuto un senso se solo fossero rimaste confinate a poche scene. Ti fa venire la cinetosi. Brutto, brutto.