Alle 20, ieri sera sono andato a mangiare. Ho subito scartato il ristorante El Pescador accanto al mio albergo, così mi sono avventurato nella via del borgo, che era completamente buia. L’altro ristorante IL TORANO era aperto ma quasi quasi stava chiudendo. Con poca voglia il cameriere mi dice di accomodarmi. Io faccio per entrare nel locale. Lui contrariato mi indica il tavolo oltre la strada proprio di fronte al mare. Ora, non che facesse freddissimo ma avrei preferito un posto più riparato. Incurante delle mie preoccupazioni, mi metto al tavolo. Vorrei dire che non ho alcuna intenzione di mangiare la zuppa di pesce, visto che le onde mi lambiscono. Lui imperterrito. Abbiamo del pesce, la carne non è buona. Già, stupido io! Che cosa vuoi mangiare in una località sul mare, anzi praticamente nel mare? Pizzoccheri? A un mio mezzo sbuffo, il cameriere impietosito mi guarda e mi chiede se voglio un’entrecote. Ma per l’amor del cielo! Va bene pesce. Ecco, una bella cernia appena pescata.

E vai di cernia. Dopo un po’ mi arriva questo cadavere compreso di testa, sanguinolento. Stringo i denti. Mi viene una crisi isterica. Vorrei urlare. Ma tanto non otterrei niente. Micio, micio, vieni qui. E gli butto mezza testa. Mi metto di impegno con precisione chirurgica a dissezionare il cadavere. È poco cotto, manco l’ha vista la brace… Dundio. Le patate, due noccioline ancora acerbe, sono poco lessate. Vorrei scaraventare il piatto direttamente nel mare. Alla fine trangugio tutto e via di cernia nello stomaco. Il dolce, almeno quello, una ciottolina invisibile di crema catalana. Gnucca, fredda, congelata, e non di certo appena fatta. Alla modica cifra di 5 euro e 85 centesimi. Mi chiedo perché quei 85 centesimi. Per il caramello bruciacchiato? Che schifo. Pago, trentun euro e ho ancora fame. Per una cernia! Giuro che stasera, pur di sfidare il buio e l’oscurità vado in città a mangiare.

In compenso la colazione stamattina era pantagurelica. Non mi hanno chiesto che cosa volessi. Mi portano un intero tagliere di formaggi, salumi, panini, toast, yogurt, un uovo. Giuro non ce la faccio a mangiare tutto. E poi erano già le 8.30.

Prendo l’auto e mi dirigo al parco dei Vulcani. Lascio l’auto e salgo sul pullman che ci fa fare un giro vertiginoso per i crateri. Le ruote sono a strapiombo, la gente incurante si sposta a destra e a sinistra. Io so che il pullman marrone andrà giù in qualche cratere. Mentalmente mi ripasso lo Start, il triage semplice e immediato. So che alla vecchietta il cartellino nero è già suo. Dopo questo rollercoaster al cardiopalmo, bellissimo ma per coronarie indenni, scendo ormai claustrofobico.

Riprendo l’auto, per portarmi a nord dell’isola. Mi fermo in una città, uno dei borghi più belli della Spagna. Sì è molto carino. Mi fermo perché credo di essere entrato e uscito dalla ztl almeno tre volte ma non mi sembrava che ci fossero telecamere o altro. La piazza è carina, tutta bianca e piena di negozietti.

Riparto per il nord. Il mirador è l’altro must da vedere assolutamente. Un posto a picco sul mare, a oltre trecento metri di altezza, da dove vedevi tutta l’isoletta di Graziosa. Peccato che fosse iniziata la tempesta di sabbia e dal mirador c’era davvero poco da vedere.

Scendo in un clima surreale, sole a picco sulla crapa, cielo giallo, foschia da oscurare completamente la vista e vento forte. Sembrava di vivere l’ultimo giorno dell’apocalisse. Mi lancio verso la città, almeno sono un po’ al riparo. Tanto ormai vedere lo spettacolo dell’isola era impossibile. Arrivo in centro ad Arrecife. Un po’ trasenda, molto meno bella delle altre capitali delle Canarie, completamente senza auto per una maratona, la wild race, lungo i sei chilometri di perimetro della città. È tutto così surreale. Mi sembra di vedere un dagherrotipo, i colori sono completamente svaniti. Non riesco a decidermi se Arrecife sia bella o meno. Ha sicuramente del fascino, ma è lì sospesa nel giudizio che non so decidermi. Vado al castello, evito che le onde mi lavino. Mi perdo tra i vicoli della città, nel pieno della siesta. Ci sono dei locali dove i giovani avvinazzati si ritrovano. La wild race si consuma sul lungo mare. Dopo un’ora ne ho abbastanza di tutta questa civiltà. Il tempo non migliora. È tutto opalescente, l’aria irrespirabile, non si vede nulla ma proprio nulla. Mi riporto all’interno dell’isola, sperando in un miracolo, ma niente. Si intravvedono le cime ma poco più.

Poco prima del Golfo, compio la pazzia in diretta. Scalo la montagnetta, sfidando il vento, la sabbia e la friabilità del terreno. Arranco fino alla cima. Mi sento come il Gesù Cristo sul Golgota che chiede pietà a Dio ma soprattutto perché lo ha abbandonato. Per tutta risposta, il vento aumenta. Non respiro più, le briciole dei tuc si conficcano tra la laringe e l’epiglottide. Sono paonazzo, giuro che muorisco. Ma poi arrivo in cima. Mi sento come il Rocky Balboa e vorrei gridare Adriana, ma non conosco nessuno con questo nome. Allora faccio di peggio. Calo i pantaloni, alberi non ce ne sono – ma chi mi vede? – e faccio una gloriosa pisciata, ovviamente lavandomi tutto perché il vento ogni secondo cambiava direzione…