La Donatella mi aveva proposto un’escursione per il secondo giorno a Muscat, facendomi capire che la città non ha niente da offrire. Un giorno nella capitale è accettabile, due proprio no. E in effetti, non posso che confermare.

Abbiamo aspettato la guida, un certo Aftab, che è venuto a prenderci allo Sheraton alle 9. Mi aveva inondato di messaggi whatsapp nei due giorni precedenti, raccomandandosi di trovarci nella hall. Temeva di aver a che fare con un vecchietto rintronato, molto probabilmente. Pochi minuti prima del nostro incontro, mi manda un’altra serie di messaggi, chiedendomi di scusarlo, ma essendoci il diluvio magari ritardava…

Alla fine è arrivato trafelato, barba, maglietta con su scritto Veni Vidi Amavi (!?), la kephiah annodata al collo, un paio di jeans piuttosto larghi e scarpe da ginnastica. Ho scoperto poi che aveva studiato alla Statale di Milano e io già me lo immaginavo nei circoli dell’Arci e del Leoncavallo tra Viale Monza e Sesto San Giovanni perorando la causa mediorientale.

Mater lo ha ammorbato con la sua voce, parlandogli ininterrottamente per 10 ore filate, in pratica per tutta la durata del tour. E lui, sant’uomo martire di Hallah, l’ascoltava e le dava corda. Giuro che ci sono stati alcuni momenti del tragitto in cui avrei voluto scendere pur di non sentirli. Hanno parlato di tutto, dal matrimonio di Mater negli anni ’60 alla vendita della casa. E lui l’ascoltava e la istigava a continuare. Io ero disperato.

Il traffico attorno a Muscat era impossibile. Tutto bloccato, tutti impazziti. – Ma sono quattro gocce! – mi dicevo. No, gli arabi proprio non ce la fanno a vedere una pozzanghera sulla strada!!! Ma poi, poco dopo essere usciti dal governatorato di Muscat, beh, il traffico è diventato scorrevole. La jeep a palla, 140 km/h fissi, sulla Muscat Expressway. Il tempo stava migliorando lentamente ma ancora grossi nuvoloni contornavano le cime delle montagne. Sembrava di essere in Valtellina, peccato fosse tutto deserto. Mah!

Tempo di fare benzina (130 litri per 32 rial omaniti, con un rial pari a 2 euro e 60 centesimi, fate voi il conto!) prendere dell’acqua all’autogrill dell’Omanoil, che eravamo in dirittura di arrivo a Nitzwa.

Una volta arrivati in centro, abbiamo fatto un girettino per il souq: ci mancava la vendita delle pentole e poi eravamo apposto. Ci ha portato nelle dolcerie dove trovavi tutti i tipi di datteri, di miele, di frutta e verdura. Io invece sempre più annoiato. Siamo finalmente saliti al forte, una massiccia torre circolare che si stagliava contro un cielo insperatamente azzurro. A dire il vero non c’era molto da vedere, ma i gradini erano davvero tanti. Io grondavo di sudore mentre Aftab bello fresco come una rosa aiutava Mater a salire ogni gradino.

Nitzwa si è consumata tutt’attorno alla torre. Il resto era tutto un piattume sterminato di case-villette per tutta la vallata. Ci siamo portati così verso le montagne. Poco prima di salire ci siamo fermati in un ristorante proprio sulla statale polverosa. Abbiamo mangiato nel cortile dove c’erano caprette e pecorelle che belavano. Il menu prevedeva o cammello (no, proprio no, prima che mi restasse qualche gobba sullo stomaco), pecora (nemmeno, pensando alle pecorelle che mi belavano attorno) e pollo. Vai di quest’ultimo. Riso in quantità industriale, humus, salsine varie, brodino e da bere una lemon-mint. Mater era un po’ schifiltignusa ma le sono bastati due rimbrotti che ha mangiato quasi tutto. Aftab ha divorato la sua porzione di pecora con doppia razione di riso in un nano secondo. Quando il suo piatto era vuoto, io dovevo ancora dissezionare il mio petto di pollo, togliendogli la pelle. Mater non si è fatta problemi. Visto che Aftab ha mangiato il tutto con la mano destra, l’ha seguito e alla fine ha mangiato quasi tutto. Io pensavo alla pecorella che mi guardava con i suoi occhioni innocenti… una sua parente era finita direttamente nella pancia della guida.

Ormai pieni e satolli, la guida ha affrontato gli ultimi 20 km, salendo i tornanti in modo coraggioso e quando la strada è diventata sterrata, l’avventura è diventata un camel trophy. Io che mi divertivo da matti, Mater ha assunto una colorazione grigiastra, non osava imprecare, e ci è mancato poco che non vomitasse sui tappeti intonsi della jeep. Il cielo era azzurrissimo, la montagna “verde”, traduzione del suo nome, che era sostanzialmente marrone e secca, si stagliava davanti a noi. I canaloni a strapiombo erano a due centimetri dalle ruote…

Non so, ma siamo giunti fino al Gran Canyon miracolosamente intatti e senza vomito aggiunto. Aftab era soddisfatto, la kephiah sventolava dal collo, io che mi sono affacciato sul bordo del canyon rischiando di rotolare giù, respirando a pieni polmoni. Finalmente qualcosa di selvaggio, di autentico, di vero. Mater si è consolata al mercatino a bordo strada, supportata dalla pazienza infinita della guida.

Tempo di fare alcune foto, che eravamo pronti per tornare indietro. Dovevamo fare la stessa strada dell’andata. Due ore e mezza di cammino sostenuto fino a Mascate. Ormai il sole tramontava dietro le nostre spalle e la gente non si era ancora ripresa dal diluvio della mattina…

E quando Mater ormai cotta e muta, adagiata sul sedile con l’occhietto impallato, finalmente Aftab ha parlato dei suoi viaggi in Turchia, in Iran, in Italia, dell’università, della moglie, dei suoi due bambini di 2 e 5 anni e dei suoi fratelli. Parlava un italiano perfetto e era un piacere ascoltarlo, sentivi la sua vita e la sua cultura come se fossero vicinissime a te. Volevo quasi scusarmi per lo strazio che ha dovuto subire per tutte quelle lunghissime dieci ore.