L’equilibrio dell’essere

Secondo premio del concorso letterario di narrativa Cooperativa di Solidarietà Sociale “Penna Nera” Sala Civica. Mariano Comense (CO) 09 Gennaio 2000 Pubblicato sul quotidiano la Provincia di Como il 6 gennaio 2000

“Per la zerozerosette portarsi in via G… al ventiquattro.
Ragazzo che si vuole buttare dal quarto piano. Sul posto polizia. Si conferma
l’urgenza”.
“Ricevuto ottounootto, servizio in urgenza per via G… al ventiquattro”.
Mentre la radio gracchia a tutto spiano dagli altoparlanti, le sirene echeggiano,
fendendo il silenzio della sera. Percorro la convalle con il macabro sospetto
di vederti a terra esangue in fin di vita. Dopo aver passato qualche semaforo
rosso e dribblato una coda interminabile di macchine, finalmente in via G….
Gli altri lampeggianti blu, quelli della polizia, sono già lì
ad indicarci il civico ventiquattro. Guardo in alto lungo la fila dei balconi,
non c’è nessuno, guardo in basso, non c’è goccia di sangue che
sporca l’asfalto.
“Per fortuna…” mormoro a denti stretti e prendo fiato per affrontare
le quattro rampe di scale del condominio tra la concitazione dei poliziotti
appesantiti dalla divisa.
Entro in un appartamento. Una donna in lacrime distesa sul divano sulla sinistra.
Di fronte, colei che si presenta come tua sorella, agitatissima, mi fa segno
di seguirla per un corridoio, bloccando i poliziotti. Mi indica una stanza.
Entro senza timore. Ti vedo seduto sulla scrivania, intento a comporre qualche
accordo sulla chitarra elettrica.
“Chi sei? Che cazzo vuoi?” mi dici con arroganza, come se avessi
interrotto un sogno.
“Sono il medico del centodiciotto”.
“Ma io non ti ho chiamato. Io voglio raggiungere l’equilibrio dell’essere.
Sto bene. Perché sei qui?”
“Perché ti hanno visto sul balcone”.
“Ma non dire stronzate…”
Allora lasci la chitarra, ti avvicini per osservarmi meglio. I tuoi occhi
sono scurissimi come i miei. Ti allontani voltando le spalle e raggiungi la
finestra, aprendola. Sul balcone, con un gesto fulmineo, salti sull’inferriata
e rimani in equilibrio senza aggrapparti.
Ho un tuffo al cuore. Impietrito, sento il fresco della sera e percepisco
il traffico pesante di sotto. L’aria è colorata dal pallido alone dei
lampioni. Non oso avvicinarmi. Mi limito ad osservarti mentre sei sospeso
nel vuoto. Tu non mostri paura. Sei tranquillo. Capisco in quello sguardo
che non vuoi farti del male. Mi rassicuri con la tua calma e così mi
tranquillizzo senza battere ciglio. Allora, consapevole che ho compreso il
tuo messaggio, salti all’interno della stanza. Chiudi la finestra. Mi guardi
e mi sorridi.
“E’ per questo che sei stato chiamato?”
“Si, proprio per questo. Complimenti sei un ottimo equilibrista”
rispondo, cercando di sdrammatizzare, mentre ti tendo la mano in segno di
amicizia. Me la stringi, ti avvicini quasi a contatto con il mio corpo, sembra
che vuoi annusarmi e mi osservi come se volessi carpirmi chissà cosa.
I tuoi occhi sono ancora scurissimi. Prorompi in una fragorosa risata, ma
ti zittisci immediatamente. Il tuo sguardo non mi molla. Devo ancora essere
esaminato. Mi tocchi, prendi il cartellino, mi passi una mano sulla guancia.
Ti allontani improvvisamente e riprendi a suonare. Osservo il tuo mondo. Una
stanza modesta come quella di un qualsiasi ragazzo della città. Un
paio di poster, sigarette, un po’ di cimeli, qualche targa, un pallone e alcune
fotografie. Ti chiedo a bassa voce mentre ti volto le spalle: “Vieni
con me in ospedale?”
“No, non voglio. Io non sono pazzo. Mi aspetta il paradiso, gli extraterrestri
mi prenderanno in ostaggio. Hanno portato via mio padre. Stasera prenderanno
anche me. Dovrò raggiungere l’equilibrio dell’essere”.
Continui con voce trasognata le tue allucinazioni. Saltelli in tentativi maldestri
per assumere una posizione precaria come quando si fa la prova per vedere
se uno è ubriaco. A dire il vero non ti riesce bene. Mi propini diversi
gesti volgari. Ti guardo divertito. Non posso però perdere altro tempo.
Devo rendere disponibile l’ambulanza al più presto. Ti afferro il polso
magro con decisione e ti chiedo di nuovo:
“Dai, vieni con me in ospedale, e poi ti riporto indietro. Fallo per
tua madre che sta piangendo in soggiorno…”
Allora mi guardi spaventato, mi strattoni ed esci dalla stanza. Ti chini su
tua madre con un’eleganza che mi commuove. Mi dico a denti stretti, quasi
stufo di te e di quella recita: “ha pure il complesso d’Edipo…”
Inizi a piangere e a baciare tua madre.
“Mamma, ti ha fatto del male qualcuno… mamma, sono qui… apri gli
occhi. Io sono con te. Andiamo in paradiso assieme. Dobbiamo raggiungere l’equilibrio
dell’essere, e poi arriveranno gli extraterrestri a prenderci”.
Piangi con sincerità, le tieni la mano; tu che sei in ginocchio, sembri
uno che stia pregando. Tua madre è in preda ad una crisi isterica.
Non parla, non respira, il trucco le si è sciolto sul volto. E’ una
bella donna. Tu hai preso da lei. Hai gli stessi lineamenti fini e dolci.
Ti metto la mano sulla spalla. Mi aggredisci con le lacrime agli occhi. Vedo
la disperazione e un vuoto incolmabile.
“Mia madre è morta. Tu medico ssuem-uno-uno-otto salvala…”,
mi urli a squarciagola con disprezzo a due dita dal mio volto, sfidandomi,
leggendo sul cartellino della divisa la mia qualifica, tuttavia senza pronunciare
il mio nome. Posso sentire il tuo alito caldo e profumato.
“Tua madre non ha niente. Sei tu che devi venire in ospedale.”
“Non posso, lascia stare mia madre. Non vengo. Devo andare in paradiso
e raggiungere la santità. Gli extraterrestri mi vengono a prendere
stanotte. Tu, dottorino del cazzo, non toccare mia madre…”
Ti guardo con compiacimento. Sono tentato di lasciarti lì ed infischiarmene
del tuo equilibrio, dei tuoi “extraterrestri”. Non me ne frega niente
di te. Sì, sei pazzo, ma sono sicuro che non ti getterai dalla finestra
stanotte.
L’ho capito dai tuoi occhi, dalla tua espressione gentile benché cerchi
di essere il più possibile sgarbato e insolente. Ma come posso dimostrare
a tutti la tua innocenza quando davanti a me e alla polizia, ti sei sporto
in modo così evidente e pericoloso? Ti lascio andare nel tuo sproloquio
verbale che diventa logorroico. Ti agiti. Mi sbrodoli una lunga sequenza di
allucinazioni. Io ti osservo, non retrocedo neanche di un centimetro. Mi vuoi
umiliare, ma non ce la fai. Rimango impassibile. Sono il “medico uno-uno-otto”.
Sono duro io, duro come una roccia. Adesso mi senti ostile, non amico come
mi sono presentato nella stanza.
Lo capisci. Cerchi di leggere dentro di me le mie paure, i miei punti deboli
per ferirmi. Sai che ce ne sono molti. Ma non ti concedo niente. Non ti lascio
passare dentro il mio mondo. In questo momento sono la legge, sono la razionalità,
sono il medico. Vorresti abbracciarmi per carpirmi un minimo di comprensione.
E anch’io scopro in questo delirio, un mondo di incomprensioni, di possibilità
negate, di vuoti incommensurabili, di silenzi impalpabili. Scopro quanta sofferenza
si è insediata dentro di te dalla morte di tuo padre che si è
gettato dal balcone sei mesi addietro, quanto vuoto ti è costata la
sua mancanza. Vuoi perpetuare il suo gesto perché vuoi raggiungere
la santità, trovando un equilibrio tra un mondo perfetto e uno troppo
stretto per te. Proprio come quando eri sull’inferriata del balcone. Al di
qua la tua stanza, al di là, il paradiso. Anch’io voglio abbracciarti
per dimostrarti la mia comprensione.
Tuttavia non riusciamo ad avvicinarci, siamo lontani e ci chiediamo come mai
in questo momento non possiamo gestirci i nostri desideri e le nostre passioni.
Ce lo domandiamo, sfidandoci l’uno di fronte all’altro, barricati dietro le
nostre etichette, quella del “medico uno-uno-otto” e quella del
“pazzo che si vuole buttare dal quarto piano”. Io non ti offro niente,
neanche tu mi concedi qualcosa e paradossalmente ci respingiamo, facendoci
del male.
Ti osservo ma non retrocedo dalla mia posizione. Tu continui nella tua pantomima,
aggredendomi, alternando momenti di rabbia di fronte a me e di calma davanti
a tua madre. I poliziotti aspettano per mezz’ora consumandosi nel dilemma
se agire o meno. Osservano il dramma, il parossismo delle parole e dei gesti
convulsi. Tutto diventa frenetico. Non riesci più a controllarti. L’equilibrio
lo stai perdendo. Non sai qual è il tuo mondo. La mia presenza ti disturba.
Ti lascia inquieto. Tu hai gli extraterrestri, ma non possono venire fino
a quando ci sono io in quella stanza. Capisci che ho afferrato il tuo segreto.
Ormai conosco la tua sofferenza, credo nel tuo equilibrio, sono convinto fermamente
che per questa sera non vuoi gettarti. La perfezione è ancora lontana.
La lotta diventa sempre più dura. Se aspetto ancora un po’, cedo e
ti lascio in casa. Guardo ancora i poliziotti che mi interrogano muti perché
non agisco. Aspetto soltanto l’acuirsi della tua crisi.
Dopo un po’ inizi a gridare. Non piangi più. Mi insulti, strattoni
tua madre perché si svegli. Ho indugiato troppo. Ora è fin troppo
evidente la tua pazzia. Sei in preda ad agitazioni convulse. Non riesci a
dimostrare nessi logici e ideativi. E’ la fine per te. Ad un mio cenno, i
poliziotti ti afferrano e ti stendono sul pavimento. Sei braccato, ti hanno
preso, no, non gli extraterrestri, ma due poliziotti che ti tengono fermo.
Ti senti incapace di divincolarti.
Non posso lasciarti in casa quando hai dimostrato a tutti che riesci ad arrampicarti
su un balcone del quarto piano rimanendo in sospeso nel vuoto. Riesco a bucarti
un braccio con l’ago di una siringa. Provo un sottile piacere. Adesso sono
io che ti possiedo, che ho infranto il patto di non belligeranza, quello stesso
che ti ho presentato in camera mostrandomi con il più mite dei sorrisi
e stringendoti la mano. Ho invaso il tuo territorio. Quell’ago è la
mia potenza. Certo, ti inietto solo un blando ansiolitico. Sono sicuro che
non ti farà effetto. Cosa potranno mai farti dieci milligrammi di “diazepam”
quando sei capace di rimanere in equilibrio sul balcone?
Addirittura non senti neanche il bruciore dell’ago in vena. Mi guardi con
disprezzo, come se fossi un vigliacco, un traditore. E, in effetti, mi sento
tale. Mi sento umiliato, perché non sono stato capace di stare al tuo
gioco, perché non ti ho assecondato lasciandoti in pace e tranquillizzando
la mia coscienza.
Sei più furibondo di prima. Hai gli occhi iniettati di rosso. L’ira
esplode. Le vene del collo sono turgide. Non ho paura di te. Io sono la legge,
sono lo Stato, sono il “medico uno-uno-otto”. Mi guardi con odio.
Tiri calci ai poliziotti, infrangi qualche vaso, tenti di ferire i volontari
con un pezzo di vetro. Ti vedo ormai senza più l’equilibrio di prima.
Ti ho teso un tranello e sei inciampato. Ma non ti ho tradito, credimi. Io
sono il medico in questo momento. Ho compreso tutta la tua disperazione e
credevo agli “omini” che sarebbero venuti a prenderti.
Ti chiudono i polsi nelle manette. Allora sì, che ho un sussulto. No,
metterti le manette non possono farlo. Sembra che le abbiano messe a me. Ma
io sono la legge, io sono lo Stato. Mi sforzo di pensare che ti abbiano solo
imposto dei mezzi coercitivi per il tuo bene e non che ti abbiano limitato
la tua libertà. Chiudo gli occhi per non vedere, perché se ti
guardassi ancora per qualche secondo, mi piegherei, perché mi farei
coinvolgere dalla tua sensibilità. Hai un’indole docile, di quelle
che non ti permetterebbero di fare del male a nessuno, nemmeno a te stesso.
Non posso vederti in questa condizione di animale braccato. Non posso, ma
devo resistere almeno fino all’ospedale dove altri decideranno l’ordinanza
di ricovero coatto. Cerchi il mio sguardo. Mi chiami con disprezzo, mi urli
parolacce. Ti agiti convulsamente, mi insulti. Non ti sento. Sono al di qua
del raziocinio. Io sono il “medico uno-uno-otto”. Non saresti dovuto
salire sul balcone in quel modo. Non puoi pretendere da me che sia clemente
alle tue esigenze.
La disperazione cresce sempre di più ad ogni secondo come un’onda in
piena. Sento la risacca della disperazione nelle tue urla. Il tuo essere vibra,
tendendosi verso di me. Cerchi di aggrapparti alla mia coscienza. Ma io mi
allontano. Ti volto le spalle. Mi preoccupo di depositare la siringa e di
sistemare le fiale dei farmaci. Adesso il mio compito è finito. Ti
portano giù dalle scale in modo maldestro, strattonandoti sulle coste.
Trascini i piedi. Non cammini, vieni spinto. Ti seguo. Da dietro ti posso
osservare senza il timore di sentirmi esposto al tuo giudizio. Ti vedo, gradino
dopo gradino, scendere riluttante con spinte poco gentili dei poliziotti.
Sei soltanto un povero ragazzo, no, non un pazzo.
Ma chi potrebbe affermare ciò, esattamente il contrario di come ti
stai comportando? Che cosa devo scrivere sul referto? Posso liquidarti con
la più semplice e sbrigativa diagnosi di “agitazione psicomotoria”,
lasciando l’ingrato compito di vivisezionare la tua anima ai colleghi psichiatri?
Eppure credo in te, nella tua sincerità. Ho visto come ti sei chinato
davanti a tua madre, ho apprezzato il mondo della tua stanza, ho indagato
in profondità nei tuoi occhi, ho creduto nella dimostrazione sul balcone.
Io però sono un medico. Peccato che tu abbia scelto la sera sbagliata,
quella in cui impersono il medico dell’emergenza.
Forse, sarebbe stato meglio trovarti per terra in una macchia di sangue. Almeno
mi sarei comportato con imparzialità, senza urtarmi nel tuo mondo.
Ti avrei preso due vene, infuso colloidi o cristalloidi, posizionato elettrodi
sul torace e intubato, come da protocollo e non avresti avuto la possibilità
di offrirmi la tua debolezza di ragazzo ferito che vuole farsi rapire dagli
extraterrestri. Sarebbe stato molto più facile per me, gestire un politrauma
piuttosto che un ragazzo psicolabile. Probabilmente una vita spezzata mi avrebbe
fatto meno male che sentirsi in conflitto con le proprie azioni. Non ho protocolli
da seguire in questo caso. Sono soltanto io a decidere. E la decisione diventa
più ardua quando si presenta un ragazzo che ha un mondo di sofferenza
dietro le spalle. Perché mai avrei dovuto infierire contro di te semplicemente
perché volevi trovare l’equilibrio dell’essere quando ormai eri pronto
ad essere prelevato dagli “omini” che ti avrebbero aspettato da
qualche parte, lì, su nel cielo?
Ma come posso crederti fino in fondo quando ti ho conosciuto soltanto in una
manciata di minuti mentre danzavi sul balcone? Mi dovevo lasciar commuovere
dal tuo psicodramma recitato in maniera ineccepibile per imbrogliarmi? Io
sono un medico, te l’ho pure detto appena ci siamo visti, ma sono anche un
ragazzo di poco più grande di te. Quella stanza in cui sono entrato,
potrebbe essere anche la mia. Hai voluto che mi comportassi come te, lasciando
da parte il medico della divisa. Ma perché, perché hai voluto
fidarti di me? Cosa avrei potuto darti di più dei tuoi amici extraterrestri?
Che cosa avrei mai raccontato al magistrato se solamente ti fossi fatto un
graffio qualora avessi deciso di lasciarti a casa? Non avresti dovuto recitare
la farsa, tanto non ti avrei mai lasciato a casa e non mi sarei mai fidato
ciecamente di te!
E ora ti vedo piegato, che ti lasci strattonare a forza. Sei un peso morto!
Come vorrei venirti vicino, gridarti la mia comprensione, che è tutto
sbagliato ciò che faccio, ma che la legge purtroppo mi impone questo
comportamento. Perché non mi inviti anche tu dai tuoi amici extraterrestri?
Magari per una sera, facciamo una grande festa e danziamo per tutta la notte
fino a star male!
No, io sono il “medico uno-uno-otto”, come mi hai chiamato, evitando
accuratamente di pronunciare il mio nome. Lo strazio delle urla mi fa star
male, ancor di più delle sirene. Non riesci a tranquillizzarti. Non
oso bucarti di nuovo. Non voglio avvicinarmi a te. Sull’ambulanza mi chiedi
il modulo dei referti. Scrivi a grandi lettere, con le manette ai polsi, che
volevi dimostrare al medico l’equilibrio dell’essere e che non sei pazzo.
Ti firmi. Lettere slegate, grandi, lievemente infantili. Ti osservo sottecchi,
muto, facendo finta di fare altre cose. I poliziotti ti sono accanto. Anche
loro sono dei ragazzi come te e me. Percepisco anche in loro un minimo turbamento
da come ti guardano con un misto di compassione.
Riesci a colpire nell’emotività della gente. Ti riesce bene. E non
è solo la tua pazzia che smuove la loro coscienza, ma un qualcosa d’altro
che non riesco ad individuare. Forse davvero sei l’eletto di un progetto grande
e universale e hai un qualcosa dentro di te, una specie di tesoro che non
riesci però a tirare fuori e a mostrare. Ecco! La pazzia ti fa chiudere
in te stesso e nasconde il segreto della tua anima.
Altro che equilibrio dell’essere! Cristo, non lo capisci? Credimi, ti prego,
non urlare! Non resisto. Mi fai star male. Sono un medico, sono la legge,
sono lo Stato. Non sono nient’altro. Non rappresento niente per te, neanche
un amico… però quelle manette ai polsi, feriscono anche me.
Ma quant’è lunga la strada per l’ospedale? Quanto ci impiega questa
maledetta ambulanza ad arrivare al pronto soccorso. Mi sento agitato. Sto
sudando. Mi tolgo i guanti in lattice con la precisione di un chirurgo dopo
un’operazione. Che liberazione! Mi strofino le mani sudate impregnate di talco.
Spero di aver reciso il marcio ed enucleato il tumore dal tessuto. Fosse così
facile! Il dubbio di aver lasciato anche una sola cellula cancerogena, mi
attanaglia. Non mi sento soddisfatto. Ti ho allontanato dal tuo paradiso perché
io sono il medico e tu quello preso in ostaggio dagli extraterrestri. Vedo
i palmi delle mani sudate. Tremano le dita. Forse un’ipoglicemia transitoria.
Non ho ancora mangiato. Dai, che ti invito in una pizzeria! Perché
non ci andiamo tutti noi. Sarebbe bello. Una serata in compagnia!
No, tu ti disperi, piangi, spezzi la biro, dai calci all’ambulanza.
Vorrei trovare un compromesso, ma ormai tutto è irrimediabilmente concluso.
Non hai più libertà, non hai più un paradiso che ti attende.
Mancherai all’appuntamento coi tuoi amici. Tutto per colpa mia.
Superiamo il cancello dell’ospedale. Mi tiri addosso il blocco dei fogli.
Per un momento ti tranquillizzi, ma è solo per mostrami per l’ultima
volta, il tuo sguardo profondo e indagatore. Vuoi darmi la possibilità
di ammirare il tuo mondo in un insperato tentativo per commuovermi. Ma non
ti libero. Vuoi farmi sentire in colpa. Ma non c’è bisogno del tuo
sguardo. Ci sei già riuscito col tuo psicodramma. Adesso sono io lo
sconfitto e l’umiliato. Abbasso gli occhi per terra. Tu sei duro, duro come
una roccia. Rincominci a gridare e a calciare. Non ti ho tradito, eppure tu
scendi dall’ambulanza con questa convinzione. Mi sputi addosso, sulla divisa,
vicino al cartellino e non mi degni più di uno sguardo. Disprezzi il
medico, non l’amico che avresti voluto incontrare. Chiudo gli occhi. Con la
mano, tolgo la saliva. E’ ancora calda, è la tua anima. Mi lascio cadere
sul sedile dell’ambulanza. Rimango col capo chino. Io sono il medico, tu un
pazzo. E’ così, non può che essere così. Leggo le tue
parole. Passo un dito sulla carta per seguire il contorno delle lettere. Sorrido.
Non ti ho tradito, caro amico e lo sai nel tuo cuore. Prendo la radio:
“Ottounootto la zerozerosette in ospedale. Terminato servizio, libera
ed operativa”. Mi costano una fatica enorme quelle parole. Tiro un sospiro
di sollievo e con uno sforzo, alzo lo sguardo e scendo dall’ambulanza. Mi
accorgo di avere qualche lacrima. Mi passo una mano sugli occhi. Non voglio
che se ne accorga qualcuno. Varco le porte del pronto soccorso con il blocco
in mano. Le tue urla risuonano per le sale. Io sono un medico, sono la legge,
sono un pubblico ufficiale. All’infermiere di turno consegno i dati e la diagnosi
di “agitazione psicomotoria”. Non voglio vederti, non mi prendo
neanche la briga di lasciare le consegne ad un medico. Qualcun altro deciderà
per la tua vita. Esco sul piazzale. Faccio appena in tempo a gustare l’aria
fresca della sera che la centrale mi chiama per un nuovo servizio. Di nuovo
i lampeggianti e l’urlo delle sirene. Non sento niente. Sono il “medico
uno-uno-otto”. E ti dimentico, caro Andrea.