In realtà era soltanto una mezza mattina calma e azzurra. Nessuno immaginava che avremmo rischiato seriamente di perdere l’aereo.

Ovviamente dopo la cena all’hotel Me”v”idien all’una di notte, in camera come dei veri pascià, con il formaggio e le patatine che ci hanno zavorrato nel letto, l’alzarsi alle ore 6 è stato traumatico. Ma niente ci lasciava scoraggiare.

Una colazione di tutto rispetto con il profumo di bacon e uova strapazzate, ci siamo incamminati verso Casablanca.

Erano le otto e l’areo era alle 11.30. In mezzo ben 230 chilometri. Certo la Marrakesh-Casablanca, nuovissima e liscissima come una pista da bowling, invitava ben volentieri a superare abbondantemente i 120 km se non fossero stati per quei quattro autovelox (di fronte ai quali ho inchiodato con vibrata protesta della Dacia Logan) e per l’omino abbarbicato sul pendio di un promontorio prospiciente la carreggiata autostradale che si divertiva a puntare la pistola del telelaser come se fosse un giocattolo.

Dicevamo : i 230 km sono passati (e speriamo anche gli autovelox) ma ormai erano le dieci (se fate la media ci stiamo).

Ora, l’Aeroporto Mohammed V (che ho sempre creduto fosse IV, devo aver perso un’unità da qualche parte) non è che sia quella landa spaventosamente enorme come certi aeroporti. Il problema che il parcheggio delle auto a noleggio era scritto su un cartello piccolissimo e in francese (location des voitures). Ovviamente il minus habens del poliziotto, un giovane segaligno, a momenti non sapeva neanche che si trovasse in aeroporto, non ha saputo indicarci la strada.

Il check in, naturale che fosse così, si trovava esattamente dalla parte opposta del terminal (che per inciso erano due terminal, in realtà quello degli arrivi e delle partenze, quando si dice la logica).

Appena mollata la macchina al suo destino (con un pararuota distrutto e tenuto su alla benemeglio con un rametto preso direttamente dalle alture dell’Alto Atlante, che poetico!), siamo scattati nei due cento metri corsa ad ostacoli schivando possibilmente donne in burqa, poliziotti che erano pronti a sbarrare la strada, valigioni che nemmeno fossero dei container disseminati per i lunghi corridoi.

Col fiatone al check-in della Air Royal Maroc, in fondo e nascosto, il bancone di Malpensa era desolatamente vuoto. 10,25 chiusura dello stesso. Panico totale. Ci scaraventiamo letteramente nel bancone della business dove una serafica hostess ci dice che non può farci niente. Già immaginavo un’altra notte a Casablanca, ma, Inshallah, è proprio il caso di dirlo, la stessa, impietosita forse dal mio sguardo truce e psicotico, ci stampa due carte di imbarco.

Fosse finita lì… Alla frontiera aspettiamo una mezz’ora in trepidissima ansia ma l’agente non voleva saperne di accellerare i tempi. Preso dalla disperazione, mentre Tiziana invitava a una saggezza di calma e zen che non avrebbe avuto nemmeno un monaco buddista, mi rivolgo alla più alta in grado tra i poliziotti e con un sorriso a trentaduedenti, una faccia bastonata, stile gatto degli stivali in Shreck, le dico di farci passare perché altrimenti avremmo dovuto dormire sotto i ponti di Casablanca (ammesso che ce ne siano) e non ci sembrava il caso.

Insomma, dopo aver tagliato la coda, in modo ufficiale e con la benedizione della Gendarmeria Royale, che ha dovuto riscrivere completamente i moduli del disimbargo (sai, compilarli con tutta fretta e con la tema di perdere l’aereo, non è che segui la calligrafia insegnata alle elementari), ci catapultiamo direttamente alla porta 21 senza neanche vedere il Duty Free (ma insomma!) e ci gettiamo letteramente dentro il boeing 737 e partiamo alla volta di Milano Malpensa dove avremmo trovato, ma che sfiga, la neve…