È sabato, non vuoi vedere la parte turistica dell’isola, quella occidentale? Prendiamo la Renault e ci dirigiamo a nord su quell’unica strada che sarebbe diventata nei giorni successivi un incubo, una corsa ad ostacoli, un sorpasso azzardato tra un dirupo e un trattore. L’unica certezza che ti risparmiava una buona fetta d’ansia era la consapevolezza di non poterti perdere. Era solo quella la strada.

La costa rovinata da complessi alberghieri tirati su come saracinesche lungo i pendii delle colline. Le spiagge disseminate da una caterva di ombrelloni. È la Grecia che ti aspetti di vedere ma non così rovinata come a Rodi dove il bellissimo profilo della costa è imbruttito da queste costruzioni.

Arriviamo alla strafamossima baia di Antony Quinn, non so come si scriva. La baia è bellissima sicuramente, ma troppe auto, troppo smog, troppi ombrelloni, troppo di tutto, di pedalò, di bar e caffettini. Riusciamo a trovare miracolosamente un parcheggio e ci portiamo verso la spiaggia. Sembra di essere a Capri. La vegetazione è sufficiente per coprire il tragitto di una piacevole passeggiata ombrosa. Arriviamo al mare. È sporco, non tanto, però c’è schiuma, ci sono chiazze oleose. Si infrange l’immagine idilliaca di quel posto. Tempo di fare alcune foto che ci portiamo subito al parcheggio. Per uscire dal quale devi districarti al millimetro tra furgoni, moto, auto e muretti. Speri di non falcidiare dei bimbi che attraversano la strada come se fossero sulla 36. Vado pianissimo in quel budello e dedalo di curve. Non vorrei ritrovarmi in mare a pregare qualche santo. Finalmente riconquisto la statale, la via principale e ritorno verso l’albergo. Mi fermo in diverse spiagge. Una delle quali davvero ci ho lasciato il cuore: Agathi Beach, racchiusa in un’insenatura di sabbia dorata, che degrada dolcemente in mare. Mare cristallino. Non perdo un secondo e mi ritrovo in mezzo alla baia a godermi l’azzurro e il cielo sotto il sole che impietoso mi divorava ogni razionalità. Ma nel mare stavo bene…

Ritorno e mi fermo daprima nel paesello di Charaki, un sonnolento e tranquillo paese di pescatori, non proprio turistico ma che lo diventerà prima o poi. E poi in una chiesetta ortossa, di Tsampika. Il campanile traforato, bianchissimo, l’odore di incenso e di vernice, stavano ridipingendo i portoni. L’aria immobile nello scuro della navata principale, dove seriose icone di madone e di cristi ti guardavano con aria severa. Mi sono perso nel silenzio, mentre Mater era in giro a comprare qualcosa nel negozietto, e nell’ombra di una quercia secolare.

La sera, grigliata in spiaggia. Altro che le nostre grigliatine!, lì era proprio una catena di montaggio tra gli innumerevoli tipi di carne e gli sgombri pescati chissà dove. Poverini. Dovevo prendere un po’ di allopurinolo per metabolizzare quella massa protidica da intasare i tubuli renali… E infine serata con un gruppo moscio che suonava il sirtaki. Potevi tranquillamente suicidarti dalla noiosissima serata.