Questa giornata me la sono dedicata per vedere meglio la città di Lindos. Dicevo che è meravigliosa. C’è tutta la Grecia in questa distesa di case ai piedi dell’acropoli, un lenzuolo bianco steso nell’incavo tra il promontorio del mare e le alture dell’entroterra. Casette meravigliose, armonicamente appoggiate le une sulle altre. Non una stortura, non un palazzone, nemmeno in periferia. Lindos è rimasta incontaminata come il biancore dell’intonaco. È giusto che sia così, che la grecità venga preservata. E non è un caso che i paesi che conservano queste caratteristiche sono i più visitati da orde di turisti.

Lindos la si abbraccia in uno sguardo, già dalla statale sopraelevata, un colpo d’occhio che viene ripagato dalla bellezza del posto. Ovviamente il traffico è impazzito, le infrastrutture sono quelle e non c’è nient’altro. Le strade che entrano nella città sono tutte pedonali, non puoi parcheggiare se non nei parcheggi in prossimità della sopraelevata, e ti lanci a capofitto tra i vicoletti di un candore sacro, abbelliti da rami di bouganville in fiore. Mi lascio andare nel dedalo di stradine. Non c’è bisogno sapere dove ci si trovi. A Lindos è sufficiente perdersi e lasciarsi guidare dagli scorci incantati delle viuzze.

Certo, ci sono i negozietti, le infinite bancarella di paccotiglia, che ti vendono la bolla di vetro che se la sgigotti scende la neve. È un po’ inquietante la cosa con i quaranta gradi tutti percepiti sulla pelle, ma sognare non fa mai male. Cerco spasmodicamente i gatti, alcuni sono sbracati alla bella vista di tutti, altri li devi cercare nascosti tra i ninnoli delle bancarelle, dietro i foulard e i vestiti azzurri. Ma ci sono, senti la loro presenza, vedi le ciottole di croccantini e di acquafredda. Alcuni spudorati si mettono sotto il flusso dell’aria condizionata e non si spostano da lì, neanche a travolgerli. È la loro conquista e per nulla al mondo ci rinunceranno.

Vado a cercare anche i miti asinelli, me li abbraccio, li accarezzo sul muso, faccio qualche selfie. Non vorrei irritare i padroni, non signore, non pago 9 euro per salire sull’acropoli, pover bestiole. Se poi dovessero trascinare me…, non sono così masochista.

Ecco, l’ultima parte che voglio vedere. L’acropoli, così caratteristica e bella da lontano, ti invita, ti dice sommesamente di seguire la via. E io non me lo faccio ripetere altre volte. Seguo il vento e inizio a salire sul promontorio. La via lastricata di pietra consunta mi conferma che è quella giusta. Il paesaggio si apre ad ogni passo. In fondo pensavo di fare chissà quale fatica ma dopo alcuni curvamenti, sono già alle mura. Così facile. Mi ricordo che all’Acropoli di Atene ci sono arrivato sbuffando come un mantice.

Pago senza fiatare i 12 euro, e stica. A buon mercato davvero. Ma non non facciamo i taccagni. Ecco la fregatura, una lunghissima scalinata di non so quanti gradini ti porta finalmente al portone d’ingresso. Mi aggrappo con tutte le forze al corrimano. Inizio a sudare, a sbuffare. Il sole implacabile spiove sulla mia testa. Gli asinelli mica te la fanno fare la gradinata. Sento di chiamare il 112 se faccio altri gradini. Chiudo gli occhi, deglutisco e nel silenzio dove percepisco solo il mio cuore rimbombare per la fatica estrema, faccio gli ultimi gradini ed entro. Buio, riapro gli occhi, respiro a pieni polmoni, grondo peggio della fontana di piazza Ippocrate. Ma sono arrivato in cima. Tra le merlature vedo la città immobile, circondata sui tre lati dal mare. Ed è un panorama stupendo, di luce e di profumi.

E poi c’è il peristilio. Delusione massima. È tutto nuovo, un falso, riscostruito. Sì c’è qualche masso originale, ma sono per lo più pietre liscissime, levigate, senza un’imperfezione o usura del tempo. Ma no, non è possibile! Almeno all’Acropoli di Atene, almeno sembra tutto originale. Queste quattro colonne sono così irreali, così fuffa che non posso nemmeno crederci che le abbiano tirate su in piedi così. Sono così sdegnato che mi porto immediatamente all’uscita. C’è una chiesetta ortodossa, questa sì che mi sembra antichissima ma non mi solleva il morale. Scendo a dirotto, faccio i gradini della mastodontica scalinata con un equilibrio precario ma non mi importa di ruzzolare giù. Via, ma lontanissimo da questo scempio di falsità. Gli asinelli sono beati, sopportano i pianti isterici di bambini, il calore e il fastidioso ronzio delle mosche. Arrivo in centro al paese. Ecco, ritrovo di nuovo la tranquillità e la serenità. Faccio finta di non aver visto l’Acropoli e mi limito a vagolare per le stradine di pietra. Evito i negozi, ho bisogno di candore bianco, dello sguardo sottecchi di alcuni micetti impavidi, sotto la calura ferragostana. Raggiungo gli altri e mi riporto all’albergo.

Prima però una sosta al minuscolo villaggio di Lardos, o Lordos come ribatezzato per la presenza di una certa presenza di discarica a bordo strada. Ma dico, come si fa? Ci vuole così poco a mantere tutto pulito. Il paesello si concentra attorno a quell’unico incrocio di cinque strade. Lì è il centro con la taverna, la banca, le panetterie, un supermarket che si trasforma in un negozio di oggettini turistici, la fontana e poco distante la chiesa, posta più in alto dal cui piazzale si domina interamente il paesello. Giusto cinque minuti per seguire la vita autentica della Gregia, dei greci, seduti attorno al tavolo con le sigarette in mano a ciacolare in un linguaggio di cui non riconosco nemmeno mezza parola.