Le Poste Italiane di via Magni: una tragicommedia

Ufficio postale di via Magni a Como.

È totalmente sconosciuto che neanche le Poste sanno della sua esistenza.

Era la vecchia filiale accanto alla Motorizzazione Civile, trasferitasi ora nei palazzacci nuovi alla fine di via Paoli, nel quartiere Cà Morta. Un nome, una garanzia.

Per evitare di lavorare troppo, ovviamente, Poste Tagliane ha evitato di mettere dei cartelli così la maggior parte della gente ignora il luogo.

Ci sono andato l’altro ieri per ritirare un pacco di Amazon. Stranamente ero di buon umore, cielo azzurro, sole gentile e tiepido. Con me, ovviamente, Jake; era felice. Figurarsi! Pur di poter gironzolare e vagabondare, venderebbe l’anima.

C’erano alcune persone. Prendo il numerino e aspetto che Jake finisca di perlustrare il perimetro della sala. Mi siedo tranquillamente sull’unica sedia libera tra la gattara con gli occhi a forma di cuoricini e il pensionato camerlatese che doveva pagare una mazzetta di bollette. Pensavo di sbrigarmela in poco tempo. In realtà è passata un’ora esatta.

Il problema….

Il problema ce l’avevo davanti: un signore distinto, visto da dietro a forma di fiasco di vino, come uno dei segnaposti del Monopoly, doveva ritirare ben 15.000 euro depositati sul libretto postale. Ad un primo riscontro il sistema informatico non riconosce l’individuo, nemmeno attraverso il codice fiscale. L’impiegata, caschetto impeccabile, con la tinta dei capelli appena fatta, nessun segno di ricrescita, fresca di rientro dalle vacanze, inizia a digitare forsennatamente sulla tastiera. Prova una volta, una seconda: non c’è nulla da fare. Il tesserino o presunto bancomat non è associato ad alcuna persona fisica.

Il vecchietto si ricorda nel frattempo che forse 10 anni prima gli era arrivata un’altra carta elettronica; miracolosamente la tira fuori tra le scartoffie come se fosse una reliquia. L’impiegata s’illumina di immenso, ma la gioia si spegne subito dopo aver digitato il numero. Anche con questo tesserino il sistema si rifiuta di accedere alle credenziali della persona.

L’impiegata incomincia a spazientirsi; la gente attorno a me inizia a borbottare e a guardarsi attorno. Jake non basta più a distrarli.

Viene digitato un altro numero. Secondo le Poste ci dovrebbe essere nei server un’altra carta virtuale, nuovissima, mai emessa. Ma anche questa non funziona. Il caschetto color amaranto suggerisce a questo punto che forse sarebbe meglio aprire un conto corrente; le cose, secondo lei, si semplificherebbero e di molto. Nel frattempo, in attesa che il computer partorisca qualcosa, chiama: “Grazia, Grazia!”. Le sue parole escono dalla bocca in modo poco convinto, evitando di far trapelare il nervosismo che stava provando ben stampato sulla sua faccia, tradotto in un sonoro VAFFA.

L’entrata della capufficio è una pièce teatrale. Imbesuita, spunta dal retro come la comparsata di Cher. Osa chiedere se per caso qualcuno l’avesse chiamata. La sottoposta si limita a sospirare e ad alzare gli occhi al cielo, come una martire pronta al sacrificio. Io volevo rispondere che non cercavano lei ma il mio gatto: “Cretina, chi pensi che stia cercando? La titolare dello Spaccio dei Pannolini, il negozio accanto?”

La Grazia, con fare serafico e autosufficiente, risponde: “Massì, prova a fare così e cosà, inserisci il conto corrente”. Digita a muzzo la tastiera. Dal sistema nessuna soddisfazione. Non un cenno di risposta. Intanto viene completato l’interrogatorio. Il povero vecchietto è obbligato a far sapere a tutti la sua vita privata; a spiegare del perché deve prelevare così tanti soldi; è costretto a dire che cosa fa e che cosa non fa. Non del tutto rincoglionito, risponde in modo adeguato alle domande. Racconta con fare accondiscendente che è un perito agrario, un architetto agronomo, che ne so io, che non è un pensionato ma un lavoratore. La Grazia, a questo punto incuriosita più dalle sue parole che dal responso del computer, lo incita con ulteriori domande. Afferma con fare inquisitorio, della serie – mo’ ti prendo in castagna –, che no, non è possibile che un pensionato diventi lavoratore. Sfodera un sorriso malefico, sperando che il pretesto blocchi il tutto. L’anziano non si scompone. Conferma di essere stato un pensionato ma poi, è stato costretto ad aprire la partita iva, e a mettersi in gioco ancora una volta. Grazia non può crederci: “Ma non succede così nella vita! Prima si lavora e poi si diventa pensionati!”. Con disarmante semplicità il signore spiega che è un libero professionista e che è stato richiamato al lavoro per motivi contingenti.

La capufficio si allarma, si agita, freme come un toro. Non convinta delle spiegazioni, sparisce nel suo Ufficio. Cala un silenzio tombale. Il computer non dà cenno di vita. L’impiegata non sa se recitare il rosario o tirar fuori la spazzola per lisciare ancor di più il caschetto.

Dopo cinque minuti, riappare con quella faccia tutta corrugata e la bocca a forma di buco di gallina. Trionfante, come se avesse appena conquistato un punto a suo favore, dichiara che la stampante non funziona. Necessitano delle fotocopie e via altri minuti preziosi.

È passata intanto una buona mezz’ora.

Il computer viene nuovamente preso di mira. Vengono digitate altre informazioni sulla povera tastiera, costretta ad ospitare sui suoi tasti le unghie affilate dell’impiegata.

Non bastano i dati, i numeri, i codici, i documenti, prontamente e diligentemente mostrati uno ad uno. Il computer richiede il codice ATECO che identifica in modo univoco la professione. Ovviamente il vecchio non sapendolo deve chiamare il commercialista. Passano quasi dieci minuti, ma l’attesa non è vana. I numeri sono snocciolati proprio come vengono elencati dal commercialista dall’altra parte del telefono. Sembra di vedere la luce in fondo al tunnel. Ma non è così. La dichiarazione prevista dalla normativa sull’antiriciclaggio compare come un bel messaggio sullo schermo. Un’espressione cupa e pensierosa si dipinge sull’impiegata. “Grazia, Graaaaaaaazia”, inizia a gridare ormai fuori controllo, in preda ad una crisi isterica. Sente che i capelli improvvisamente sono mossi da una carica elettrica.

Ella, la Grazia, con quella faccia ancor più inebetita e con fare scocciato le dice: “Ma cosa vuole ancora questo computer? Guarda come si fa”. Si piazza al posto dell’impiegata, ed è un tutto perché vedi, cosa ci vuole?, è semplicisssimo. Il computer interagisce con foga, vomitando schermate sempre più sibilline. Temo che tra un po’ esploda l’ufficio.

Quella ventina di persone ormai rumoreggia peggio di un’armata cinese.

La responsabile alza la testa, come se stesse percependo l’arrivo del treno solo dalle vibrazioni dei binari, e con nonchalance inizia a sbraitare: “Scusate, oggi è così. Dovete portare pazienza, dovete aspettare!”. Le sue parole risuonano come una colossale presa per il culo. Ad un tratto dieci persone lasciano l’ufficio, spolverizzando il numeretto tra le dita. A me ha preso la ridarella, volevo ridere a crepapelle ma mi trattenevo. Jake mi guardava con un’espressione preoccupata. Evidentemente temeva per la mia salute vedendo il color paonazzo del mio volto. Durante il mio processo di contenimento, delle domande sui massimi sistemi mi affollavano la mente. Mi chiedevo come fosse possibile non riuscire a risolvere un problema, che un povero cristo necessitante di 15.000 euro non potesse in alcun modo prelevarli (soldi suoi, mica delle Poste Tagliane); ero sorpreso come si potesse essere così facilmente non solo vittima della burocrazia ma anche della inettitudine e dell’assoluta incapacità di due impiegate.

Mi stupivo come si fossero sommati così tanti problemi insormontabili: e l’antiriciclaggio e la firma e il conto corrente e la cifra così alta eccetera. La disfatta era una marea che sommergeva tutto. Bisogna rifare il conto corrente, emettere una nuova carta, far ripartire la stampante, avere il toner nuovo e di su e di giù.

A me non interessava del tempo che passava, mi stavo godendo lo spettacolo ed era pure gratuito. Ma le persone accanto a me non solo intercedevano presso un immaginario gesùcristo, ma dopo ben 50 minuti non era stato risolto un solo, uno dico, problema….

Nella Caporetto di Via Magni è tutto un fuggi fuggi. Alla Grazia si accende un neurone.

Lascia la postazione con il marasma burocratico che monta come una gelatina informe, ci guarda e candidamente chiede se qualcuno deve ritirare dei pacchi. Lo sguardo di incredulità del caschetto amaranto è impagabile.

Mi alzo, faccio due passi fino al bancone. Grazia è tutta radiosa come se nulla fosse successo, anzi si ravviva i riccioli. In pochi secondi si è completamente dimenticata del casino che si sta consumando accanto.

Non sembra consapevole che l’ufficio di via Magni sta per esplodere. Di fronte al suo volto imperturbabile, ebete, da elettroencefalogramma piatto, mi mostro spavaldo quasi per confermarle che davvero non c’è proprio niente di cui preoccuparsi, che non c’è proprio la necessità di essere così pessimisti. Anzi, lo show a cui stavo assistendo, una recita sull’alta finanza, era assolutamente godibilissimo; mi stavo divertendo un sacco.

Le volevo dire anche che avrei potuto aspettare altre 2 ore, insomma cose buffe sotto il cielo di via Magni.

Sostenuta dal mio supporto telepatico, senza chiedermi neanche la carta d’identità, inizia a frugare nell’armadio alla ricerca dell’oggetto perduto. Sembrava di essere in una scena del film Jumanji. Sopravvissuta ai livelli inferiori, ecco un’altra temibilissima sfida. Trovare il pacco Amazon.

Con furia rinnovata tira fuori tutti i pacchi di colore nero bianco giallo. Io l’avevo intravvisto subito prima che spalancasse le ante ma mai al mondo glielo avrei indicato. Come perdersi questo nuovo delirio! Dopo aver svuotato completamente l’armadio gli rimane un pacchetto, desolatamente appoggiato sullo scaffale centrale, con il logo Amazon visibile almeno dall’inizio di via Magni.

Scappa nel retro, armeggia con la stampante, rumori elettrici, ticchettii delle scarpe a spillo. L’impiegata da parte, ormai completamente fagocitata dal sistema di Poste Tagliane, non dà segni di vita. Neanche i capelli si muovono. Tutto miseramente morto. Mi aspetto che da un momento all’altro schiatti per terra.

E voilà, allo scoccare dell’ora precisa da quando sono entrato, Grazia esce raggiante con il pacchettino di Amazon in una mano e la ricevuta fresca di stampa (ma non mancava il toner?) nell’altra. Il momento è catartico. Un’aura mistica aleggia sull’ufficio. Evvai, ce l’abbiamo fatta. Mi limito a sporcare la ricevuta con uno sgorbio di firma. Guardo Jake, gli faccio un sorriso. Visto? È stato semplicissimo. Che cosa ci voleva?

Il gatto per tutta risposta, apre le fauci, emette un miagolio soffocato subito dopo e inizia a trottare verso la porta d’uscita. Il sole è ancora caldo, il cielo azzurro, Jake alza il culo e lascia una bella pisciata liberatoria appena fuori, nell’aiuoletta. E ci incamminiamo verso casa…


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